Oggi dove siamo

Il vintage è un business model

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Algoritmi, intelligenza artificiale e una produzione mai vista di dati quotidiani proietta le scelte economiche individuali e delle imprese solo verso il futuro. Eppure la memoria, il passato, e gli archivi acquistano un valore strategico decisivo.

Negli anni Settanta il più importante cantautore australiano, Peter Allen, scrisse una canzone dal titolo “Everything old is new again“. Una frasetta che mai come oggi può essere presa in prestito per ragionare sul valore di ciò che è vecchio, in un mondo ossessivamente proiettato verso il futuro.

Si prenda il vinile, per esempio. In moltissimi libri recenti di management si prendono proprio i vecchi dischi, o la Polaroid, per raccontare come il digitale abbia distrutto i loro rispettivi mercati, e di come il fenomeno non sia stato previsto dai vertici aziendali.

Eppure, da qualche tempo, stanno tornando sul mercato, con qualche buon numero e sull’onda del vintage, proprio i dischi in vinile:

  • con un prezzo medio di $20,
  • con $ 1 miliardo di giro d’affari globale previsto per la fine dell’anno,
  • con il 90% di ricavi generato dalla pura vendita dei dischi (nuovi ed usati) ed il 10% restante da accessori,
  • e con il settimo anno consecutivo di crescita delle vendite a doppia cifra.

Qualche società di consulenza – in questo caso Deloitte Canada – ha pronti report e ricerche per supportare questo ritorno del business dei dischi, ma sono piccoli casi che servono a indicare che qualcosa di “vecchio” diventa estremamente prezioso per distinguersi nell’era del “nuovo digitale”. Prezioso per chi acquista e per chi vende.

Ossessionati dal nuovo

Purtroppo l’ossessione del nuovo non è solo la stella polare di chi si lascia giustamente incuriosire e stimolare da Intelligenza Artificiale, Economia predittiva, e algoritmi.
È successo e succede quotidianamente alle aziende che vendono cultura, come Treccani in Italia o le storiche enciclopedie internazionali, e succede anche alle case editrici: si arrovellano sul futuro, per trovare una fonte certa di ricavi dal digitale e da nuovi formati elettronici. E dimenticano il passato. Inteso come stimolo per il futuro.

Chi non ri-leggerebbe un numero di Cucina Italiana, magari in quel primissimo numero della testata del 1929, che poteva annoverare il fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti nel comitato di degustazione?
È molto probabile che per ogni prodotto vecchio ci sia un futuro, soprattutto in quel fantastico mercato che sono le nicchie, anche quelle descritte nel best-seller di management La coda lunga di Chris Anderson.

Come è una nicchia quel gruppetto di studiosi, professionisti ed appassionati di astrofisica che vuole tenere in vita lo storico telescopio spaziale Hubble, che gira ancora intorno alla Terra ma rischia di essere “buttato” nello spazio per far posto al suo più nuovo collega.

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Oggi dove siamo

La sostenibilità è cool, quindi va in fattura

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Dal puro ambientalismo degli anni Settanta a un’idea alla base delle scelte di molti consumatori. E quindi delle aziende

Come può un concetto così vasto, che abbraccia economia, scienza, ambiente, esser diventato così di moda? L’idea di sostenibilità è nata intorno agli anni ’70, ed era puro ambientalismo. La immaginiamo teorizzata dai primi ecologisti, in un prato, tra una cover di Jimi Hendrix ed uno spinello, mentre nasceva Greenpeace e si odiavano gli esperimenti nucleari.

I motivi per cui è nata sono ancora buoni: lo spreco delle risorse, l’utilizzo di energie inquinanti, il consumo fine a se stesso; ma che giro ha fatto per diventare così ecobio-green e soprattutto cool da non esser più un’ideologia da alternativi, ma un’idea che sta alla base di tante scelte del consumatore moderno?

Dal consumo di energia al lavoro
ad quando è nata ha partorito diverse eredi. La prima è stata la sostenibilità energetica. Quella che voleva “solo” combattere l’inquinamento e l’esaurimento dell’energia ma si è evoluta; ha cavalcato alla grande la ricerca scientifica, influenzato la nascita di nuove risorse e creato un nuovo settore industriale, con celle solari prodotte in Asia, pale eoliche piantate in Svezia e batterie di ultima generazione progettate in Silicon Valley e posti di lavoro in tutto il mondo.

Proprio la sostenibilità del lavoro è poi la sua erede successiva. Portata a galla da una globalizzazione sempre più veloce, che consuma forza lavoro in tutto il mondo e sceglie di utilizzarla dove costa meno, ha avuto influenti estimatori come la Naomi Klein di No logo e il Toni Negri che ha scritto Impero. Ma anche qui, la teoria si è diluita nelle scelte pratiche del consumatore di oggi che, sempre più interessato alle impronte sociali del capo di abbigliamento che indossa, finisce per sostenere una moda “pulita” influenzando la nascita di nuovi cicli produttivi, nuovi materiali eco-friendly, e stimolando un’incalzante ricerca in campo scientifico.

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Oggi dove siamo

La narrazione continua del cibo

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Dentro alla scommessa di FICO c’è il tentativo di scaricare a terra la forza immateriale del cibo italiano. Un percorso replicabile anche da altri settori, anche più vergini del food in termini di narrazione.

Cibo immateriale

La narrazione del cibo italiano è cominciata anni fa, per mano di singole aziende, in maniera del tutto scoordinata. Le più forti, quelle con la produzione in Italia e il mercato anche all’estero, hanno aggiunto un po’ di storia e di alito di italianità alla forza del loro marchio, acquisita in anni di gomitate tra concorrenti di Paesi stranieri.

La storia di queste grandi imprese alimentari, quella che ha percorso le televisioni ed i giornali, aveva dietro il genio dei grandi comunicatori provenienti dal mondo dell’immagine e della pubblicità.

Il primo cibo immateriale era fatto con il video, lo spot del grande regista, la colonna sonora del grande compositore, e il cartellone del grande fotografo. Ma dentro c’era un po’ di famiglia, un po’ di marchio, un pizzico di terra.

Con Expo è arrivato il secondo cibo immateriale, quello che le medie imprese hanno governato con:

–        un piccolo stand per comunicarsi al pubblico passante;

–        un social media manager per essere presente nel mondo veloce del social network, dove foto e hashtag governano i flussi;

–        un vero piano di comunicazione per raccontarsi, per la prima volta, uscendo dalla provincia per incontrare il mondo.

Modello Eataly

Con Eataly è arrivato il tentativo di raccontare il cibo con metodo: partendo dalla raccolta di una profonda eredità, seminata generosamente da Slow Food e lasciata senza padrone, Eataly ha fuso cibo e Italia, terra e prodotto in una sola parola. E l’ha fatto con la stessa pratica di chi negli anni Ottanta a Milano ha pensato di costruire quartieri, invece che palazzi.

Infatti in Eataly c’è il cibo in tutte le sue forme – materiali e immateriali – non semplicemente il bancone, e il modello di FICO replica questa logica, con l’attività del nuovo spazio di Bologna che poggia infatti su tre azioni coordinate:

–        la vendita, affidata ad aziende e ristoratori;

–        la formazione;

–        la produzione.

Il modello di business è quindi più vicino a quello di un centro commerciale – laddove non si paga per entrare, come invece in un parco divertimenti – ma si fanno ricavi da affitti e dai ricavi dei soggetti commerciali ospitati.

L’idea di condire un’attività commerciale con la dimostrazione di come si realizzano i prodotti, e la diffusione del sapere, anche di base, relativo a essi, è originale, e il cibo è il prodotto più semplice per iniziare ad applicarla.

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