Oggi dove siamo

Il grande mercato della silver economy

Pubblicato il

La silver economy abbraccia i consumi delle fasce più anziane della popolazione; una fetta di mercato che nei paesi occidentali cresce sempre di più.

Rappresenta una terza età attiva e dinamica che ha un ottimo rapporto con lo sviluppo tecnologico, cui è disposta ad affidarsi per la salute, le relazioni e l’entertainment.

Per questo motivo ed altri è un ottimo target per assicurazioni, banche, ed aziende dei settori food e turismo. Come ci racconta Vilma Scarpino, Ceo di Doxa.

 

 


Ogni settimana raccogliamo informazioni da un Ceo e le mettiamo nel business report 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.  Per riceverlo scrivi a info@companynote.it


 

 

Ci può dare una definizione di Silver Economy?

Con il termine Silver Economy si intendono i consumi delle fasce più anziane di popolazione e molti sono i mercati e i settori che traggono vantaggio dalla crescita della quota di questa popolazione. Se ad oggi gli over 60 pesano poco più del 20% della popolazione supereranno il 30% nel 2050.

 

Avete realizzato una ricerca recente proprio sul tema “senior”. Di che fascia di età parliamo e da quante persone è composta questa categoria in Italia?

Va detto innanzitutto che è difficile riuscire ad identificare con la sola variabile “età” la categoria dei senior. Essa è infatti una variabile attualmente troppo debole per poterla considerare esaustiva. Gli studi qualitativi che abbiamo condotto sul tema e una recente ricerca realizzata in occasione del Summit di Singularity University in Italia ci hanno permesso di identificare un mix di tre fattori che si vanno ad aggiungere all’età anagrafica per definire la categoria dei Senior nell’accezione di target ‘dinamico’.

  1. Benessere psico-fisico: ben il 75% degli intervistati dichiara di avere uno stato di salute soddisfacente con addirittura un 19% che arriva a definirlo «ottimo». Tra i 71-80enni la quota di coloro che parlano di condizioni «compatibili con l’età» si attesta al 63%.
  2. Autonomia a 360 grandi: l’88% degli italiani over 60 è solito svolgere da solo visite mediche ed esami, l’86% si occupa direttamente della spesa di tutti i giorni e l’84% esegue in autonomia i lavori domestici di uso quotidiano. Non solo. Addirittura il 64% dei senior fa attività fisica regolare, percentuale che si attesta al 55% tra i 76-80enni.
  3. Focus sulla socializzazione: famiglia e amici hanno una importanza strategica per gli over 60. Il 71% vive con il proprio partner (moglie o marito), l’85% ha figli e il 65% nipoti. Poco meno della metà vede o sente i figli tutti i giorni. Per quel che concerne gli amici poi il 41% è solito incontrarli «spesso», mentre il 34% li vede «quando capita».

 

Possiamo considerarla ancora una fascia di età di cui prendersi cura o qualcosa è cambiato?

I senior con i quali ci siamo relazionati, sembrano voler prendere le distanze dallo stereotipo della persona di cui prendersi cura. Si descrivono come persone attive, dinamiche, solari (in entrambi i decenni coinvolti). Essi stessi sono spesso impegnati in attività di movimento (praticano attività fisica 64%, fanno gite per stare all’aria aperta 56%), oltre che ricreative e di intrattenimento (70% leggono libri o quotidiani e riviste, 29% vanno al cinema/teatro o visitano musei).

 

Come viene considerato il fattore tempo da questa categoria demografica?

Si legge dai loro comportamenti e atteggiamenti un importante cambiamento: al di là del singolo dato, quello che emerge dalla ricerca Doxa è che gli over 60 vogliono sentirsi se stessi nonostante l’età che avanza. I più vogliono approfittare dell’opportunità offerta da una disponibilità di tempo maggiore per coltivare le proprie relazioni, realizzare ambizioni e progetti rimandati in passato e, perché no, sentirsi socialmente utili con piccoli lavori per la comunità o, ancora, con attività di volontariato.

I cambiamenti che avvengono nella loro vita, spesso l’uscita dal mondo del lavoro, seppur modificando i ritmi delle loro giornate, non vanno ad incidere sul loro modo di viversi. La qualità del tempo più che la quantità è l’elemento cruciale per rendere gli anni dalla maturità piacevoli e meritevoli di essere vissuti appieno.

 

Che rapporto hanno i senior con la tecnologia, il web, le app…?

Il rapporto con la tecnologia appare costruito nel segno della positività e della volontà di capire come poterla usare a servizio delle proprie esigenze. La quasi totalità degli over 60 italiani ha un cellulare e nel 48% dei casi si tratta di uno smartphone.

In altre parole:

  • ci sono oltre 6 milioni di device collegati a Internet in mano ai senior.
  • L’app più amata è WhatsApp, con un utilizzo che sfiora il 100%.
  • Di più. Il 39% del campione possiede e usa abitualmente un pc e un ulteriore 10% opta per il tablet.
  • Il ricorso a email e social network, è all’ordine del giorno, rispettivamente, per il 39% e il 24% degli intervistati.
  • Non solo. Chi è collegato a Internet nel 40% dei casi è solito leggere le notizie d’attualità online, nel 29% guarda i video su YouTube (29%) e nel 20% consulta le app e/o i siti dedicati ai propri hobby.
  • In generale, gli uomini sono sensibilmente più attivi online rispetto alle donne. Anche l’età è un fattore discriminante: se l’80% dei 60-65enni svolge almeno una attività online, la quota scende al 52% tra i 71-75enni e al 37% tra i 76-80enni.

Infine, qualche curiosità: due intervistati su 3 conoscono Google, Amazon e la tecnologia Wi-Fi. Mentre altri concetti prettamente tecnologici risultano sensibilmente meno noti ai più, soprattutto nell’età più avanzata. Nello specifico: poco più di un terzo dei 71-80enni conosce il significato di «Intelligenza Artificiale» e appena uno su 5 quello di «Touch Screen».

 

Quali sono le tematiche che più li impegnano/interessano?

Le tematiche che riscuotono più interesse sono quelle che rispondono ai loro bisogni. In primo luogo il bisogno di relazione con i famigliari più stretti, un desiderio di tenersi aggiornati. Ripensando al rapporto con la tecnologia salute e sicurezza sono le aree di maggiore interesse per le possibili applicazioni in futuro.

Il 57% infatti troverebbe molto utile potere «parlare con i medici da casa, visualizzando i loro volti e gli esami fatti» e il 48% indosserebbe volentieri «braccialetti in grado di rilevare le principali funzioni vitali». Ancora: il 50% vorrebbe avere dei «sensori in casa per la gestione delle utenze e la sicurezza».

In generale tra gli over 60 vi è una fiducia spiccata nell’innovazione digitale, per il 43% degli intervistati la tecnologia e le sue molteplici applicazioni migliorano e miglioreranno sempre più la qualità della vita di tutti noi.

 

E per quali tipologie di settori sono considerati target commerciali?

In considerazione della loro capacità di spesa e della volontà di trattarsi bene, sono molti i settori che dovrebbero considerare i senior come target commerciali.

In primis il mondo dei prodotti e dei servizi bancari e assicurativi. Il mondo della tecnologia di cui già si è detto è rilevante per loro: la familiarizzazione con device, app e oggetti “connessi” è un ambito di interesse crescente per loro e importante per sentirsi parte della contemporaneità.

E’ un target importante anche per chi opera nel mondo del turismo e dell’entertainment poiché hanno desiderio di muoversi, di viaggiare e di divertirsi.

Da non dimenticare la rilevanza per il mondo food che negli anni ha diversificato la propria offerta di prodotti dedicati ai senior che hanno a cuore il proprio benessere e che sono disposti a pagare un po’ di più per avere cibo di qualità.

 

Che tipo di cambiamenti dovrebbero adottare le imprese per approcciarli commercialmente?

Dovrebbero approcciarli evitando di riproporre lo stereotipo dell’anziano, ma riconoscendoli come terza età dinamica. Non proporre i prodotti e i servizi come supporti per senior, ma come strumenti di empowerment concreto ed emotivo per il target. Diffuso in altri Paesi anche l’utilizzo dei senior nelle comunicazioni commerciali quali testimonial.

 

Che rapporto hanno i senior con il lavoro: si sentono ancora attivi professionalmente, vorrebbero esserlo, come potrebbero essere coinvolti o che ruolo possono ancora avere per le aziende o per i colleghi più giovani?

E’ difficile generalizzare questo tema. Dipende molto dal tipo di lavoro che hanno svolto, da quanto tempo e da come lo hanno lasciato e dal tipo di impostazione che hanno dato alla propria vita da pensionato. Ci sono alcuni senior che faticano a sentirsi “fuori” dal lavoro e che in qualche modo cercano di mantenersi attivi lavorativamente, magari svolgendo le proprie mansioni da volontario in associazioni o enti benefici.

Per questi profili, potrebbe essere interessante ipotizzare un ruolo di mentoring nei confronti dei colleghi più giovani. Altri preferiscono una cesura netta e una volta in pensione considerano il lavoro come un capitolo chiuso della propria vita.


Antonio Belloni

Oggi dove siamo

Tempi e obiettivi dell’impact investing

Pubblicato il

In mezzo a tutti i flussi di investimenti, dal private equity, al venture capital fino all’equity crowdfunding, si fa spazio da qualche tempo una forma nuova di impegno finanziario.

Ha tempi e obiettivi diversi dagli altri, e si aspetta dai propri investimenti qualcosa di diverso. Si chiama impact investing e ce lo siamo fatti raccontare da Luciano Balbo, Fondatore e Presidente di Oltre Venture.

 

 

 


Ogni settimana raccogliamo informazioni da un Ceo e le mettiamo nel business report 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.  Per riceverlo scrivi a info@companynote.it


 

 

 

Che differenze di base ci sono tra un investimento “normale” e uno del genere impact investing?

Gli investimenti di impatto si differenziano perché hanno l’obiettivo di creare un impatto sociale positivo attraverso il core business e non come effetto collaterale.

 

 

Quali sono i soggetti attivi? E di solito che tipo di forma giuridica acquisiscono e perchè? (es. fondazioni etc…)

La tendenza è che gli operatori del settore prendano la forma legale di fondo di investimento.

 

 

Oltre Ventures, per esempio, in quali settori è attiva e perché li ha scelti?

Oltre Venture è principalmente attiva in due aree:

  • Servizi alla persona (salute, educazione, anziani) perché sono le aree più bisognose di nuovi modelli erogativi.
  • Investimenti nelle aree meno sviluppate del paese per portare sviluppo economico e sociale.

 

 

Di quali tipologia di investimenti stiamo parlando? (per quantità, aspettative di ritorni economici e soprattutto tempi di investimento)

I nostri investimenti possono variare da 500 mila euro a diversi milioni in funzione della dimensione e dello stadio di sviluppo dell’azienda.

Ci attendiamo ritorno finanziario compresi tra il 3 e il 8 % cioè mediamente inferiori al tradizionale settore del venture capital e abbiamo tempi di investimento pazienti e lunghi.

 

 

Come si misura l’impatto dell’investimento in questi contesti?

Per ogni investimento stabiliamo il suo obbiettivo sociale macro e poi cerchiamo di definire dei dati analitici della sua misura.

 

 

A quanto ammontano gli investimenti annuali italiani nell’impact i.? Ci sono agevolazioni di qualsiasi tipo per questi investimenti?

Il settore è ancora molto piccolo e gli investimenti non superano i 10/20 milioni di euro. Non vi sono agevolazioni fiscali.

 

 

Quali sono i Paesi maggiormente attivi e perché?

Il settore è ancora poco sviluppato in Europa e la Gran Bretagna è il mercato più avanzato.

 

 

Di solito chi sono i “tipici” investitori in questo tipo di settore (in Italia e all’estero, fondi, banche, privati, famiglie…)?

Gli investitori iniziali sono di solito privati e Fondazioni, ma gli investitori istituzionali si stanno affacciando con timidezza a questo settore.

 

 

In Italia dove ambiente, acqua, clima, conseguenze di eventi atmosferici sono elementi che impattano molto sulla società, c’è un’attenzione particolare da parte del vostro settore? E c’è margine per maggior attività?

Certamente il settore ambientale è di nostro interesse, ma non in modo privilegiato rispetto ad altri altrettanto importanti come quelli precedentemente indicati.


info@companynote.it

Oggi dove siamo

Il futuro dell’economia dei satelliti

Pubblicato il

Quante tipologie di satelliti esistono? Quanta vita utile hanno e dove finiscono tutti i satelliti che hanno esaurito il loro compito nello spazio?

Luca Rossettini, Ceo e fondatore dell’italiana D-Orbit, ci ha descritto l’economia dei satelliti disegnando un ambiente in cui costi, materiali e innovazioni possono aprire o chiudere la strada ad attori o protagonisti nuovi, che hanno bisogno di servizi molto particolari.

 

 


Ogni settimana raccogliamo informazioni da un Ceo e le mettiamo nel business report 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.  Per riceverlo scrivi a info@companynote.it


 

 

Quanto è lunga la vita di un satellite? 

I satelliti sono progettati e costruiti per resistere a un ambiente – lo spazio – in cui la temperatura può variare di 100° nel giro di poche decine di minuti, e le radiazioni che attraversano il satellite possono danneggiare o distruggere la delicata strumentazione di bordo.

Prima del lancio, un satellite è sottoposto a un collaudo durissimo che include un test che simula le fortissime vibrazioni del lancio, numerosi cicli all’interno di camere a vuoto in cui il veicolo viene sottoposto a differenziali di temperatura compresi tra -60° a +80° nel corso di diversi giorni, test di compatibilità elettromagnetica e così via. Questo collaudo è essenziale perché non è possibile andare in orbita con un cacciavite ad aggiustare un satellite dopo il lancio.

Grazie a queste pratiche, i grandi satelliti cui siamo abituati sono molto resistenti, ma anche costosi e pesanti:

  • i satelliti per le telecomunicazioni, ad esempio, sono progettati per operare quindici anni.
  • i satelliti per la navigazione, tipo GPS o Galileo, sono progettati per vivere almeno 10-12 anni.
  • Altri satelliti dedicati a missioni scientifiche o di osservazione remota, sono progettati per vivere da 5 a 7 anni.

Alcuni satelliti per missioni interplanetarie, lanciati negli anni ’70 e ’80, funzionano ancora oggi a 30 o 40 anni di distanza. Sono macchine eccezionali, che in alcuni casi hanno già lasciato il nostro sistema solare.

 

 

Che fine fa dopo la sua vita utile?  

Negli ultimi anni si è affermata una classe di piccoli satelliti con una massa tipicamente inferiore ai 50 kg. Questo tipo di satelliti, generalmente operati da privati, sono usati per fornire dati a terra e offrire servizi a persone ed aziende in tutto il mondo.

Invece di usare i tradizionali —e costosi— componenti satellitari, questi satelliti usano componenti commerciali a basso costo. Questa caratteristica da una parte li rende molto più piccoli, leggeri, ed economici dei satelliti tradizionali, dall’altra ne riduce la vita ad appena due o tre anni. L’assenza di meccanismi di ridondanza tipici di satelliti più grandi riduce ulteriormente la durata tipica di queste piattaforme perché qualunque tipo di guasto rende il satellite inutilizzabile.

Un satellite raggiunge il termine della sua missione quando viene esaurito il propellente che permette di mantenerlo in posizione o quando qualcuno dei sistemi principali smette di funzionare.

Se un satellite è ancora funzionante al termine della missione, viene rimosso dall’orbita. I satelliti nelle orbite più alte vengono spostati nella cosiddetta “orbita cimitero”, una sorta di discarica spaziale, dove possono rimanere senza creare danni ad altri satelliti.

Una certa categoria di satelliti in orbita bassa è soggetta alla cosiddetta legge dei 25 anni, che prevede che un satellite a fine vita venga immesso in un’orbita che ne causi il rientro atmosferico in meno di 25 anni. Durante questo periodo, questi satelliti sono fuori controllo, e la zona di rientro è difficile da prevedere.

 

 

E i pezzi che li compongono?

Nel caso dei satelliti più grandi, alcuni pezzi sopravvivono al rientro. Se oggi la probabilità di essere colpiti da frammenti di satelliti è molto bassa, l’aumento del traffico orbitale potrebbe portare il rischio d’impatto a livelli preoccupanti.

Per questa ragione, i satelliti più massici in orbita bassa vengono diretti verso Terra in una zona di rientro prestabilita al di sopra dell’oceano dove bruciano al contatto con l’atmosfera.

Le orbite più basse sono estremamente affollate, e il traffico sta aumentando in maniera esponenziale. La legge dei 25 anni non è sufficiente in questo scenario, e in un futuro prossimo è prevedibile che l’obbligo di rientro diretto e controllato su zone disabitate venga esteso anche ai satelliti più piccoli.

Idealmente, un operatore dovrebbe riservare una quantità di propellente che permetta di rimuovere il satellite dall’orbita, evitando che questo si trasformi in un detrito spaziale. I satelliti migliori sono progettati con una affidabilità del 90% o maggiore. Questo valore non è costante, ma diminuisce rapidamente con il passare del tempo, e ovviamente se un satellite si guasta non è possibile rimuoverlo. Quando questo succede, il satellite rimane nella sua orbita, dove comincia a ruotare attorno a se stesso e ad andare alla deriva, rischiando di andare a sbattere contro altri satelliti che quindi devono sprecare prezioso carburante per evitarli.

 

 

Voi realizzate il cosiddetto decommissioning di un satellite, operazione che evita di farlo diventare spazzatura spaziale? In cosa consiste?

Il nostro D3 è un motore intelligente  specializzato in manovre di rientro che s’installa su satelliti prima del lancio. Un domani, quando esisterà un mercato, intendiamo proporre sistema per installarlo in orbita su satelliti non più funzionanti.

Il sistema è totalmente modulare e plug and play. È autonomo, e usa  le risorse del satellite solo per mantenere cariche le batterie e verificarne lo stato di salute.

Questo innovativo prodotto tecnologico può essere utilizzato su satelliti di qualunque dimensione e tipologia operanti in qualsiasi orbita. La strategia di decommissioning cambia a seconda dell’orbita e della massa del satellite.

Il D3 per satelliti geostazionari — grossi satelliti per le telecomunicazioni a 36 mila km di altezza— mantiene una elevata affidabilità anche dopo 15 anni di vita nel difficile ambiente spaziale, garantendo di poter spostare il satellite nella orbita cimitero come previsto dalla legge anche in caso di malfunzionamento del satellite stesso.

Un grande satellite per l’osservazione remota in orbita bassa, tra 600 e 800 km, tipo quelli che vengono usati per monitorare incendi o controllare lo stato di salute di piantagioni agricole, monta un D3 che è in grado di causare il rientro diretto e controllato in una zona predeterminata sulla Terra, lontano da zone abitate.

Questo sistema è in grado di capire se il satellite ha smesso di funzionare, permettendo di rimuoverlo comunque, una cosa impossibile con la tecnologia attuale.

La rimozione diretta da un’orbita bassa richiede meno di un’ora. Per spostare un satellite geostazionario in orbita cimitero ci vuole circa un giorno o poco più. Tutto dipende anche dal modulo propulsivo montato: l’operatore potrà decidere se fare una manovra divisa in più passi o rimuovere il satellite velocemente.

L’uso del D3 semplifica le operazioni di fine vita, riducendo drasticamente i tempi di smaltimento, permettendo all’operatore di ridurre i costi operativi e di utilizzare fino in fondo il propellente a bordo, allungando la vita del satellite e aumentando il fatturato.

 

 

D-Orbit si occupa anche della progettazione e della costruzione di satelliti oltre che del “recupero”?

D-Orbit offre servizi lungo tutta la catena produttiva di un satellite, inclusi:

  • progettazione,
  • manifattura,
  • collaudo,
  • certificazione per il volo,
  • assicurazione,
  • rilascio nello spazio,
  • operazioni in orbita,
  • e rimozione.

Abbiamo già lanciato il nostro primo satellite, D-Sat, e siamo al lavoro per preparare la prima missione della nostra piattaforma ION CubeSat Carrier, un satellite da più di 100 chili capace di trasportare in orbita fino a 16 CubeSats e rilasciarli uno a uno in posizioni orbitali indipendenti.

I nostri satelliti —anche quelli più piccoli— sono progettati e costruiti secondo gli standard più stringenti dall’industria spaziale internazionale, come le ECSS, gli standard NASA e alcuni standard militari per la sicurezza, e opera in produzione tramite ingegneri certificati dall’Agenzia Spaziale Europea per particolari operazioni.

In questo modo l’azienda riesce a garantire un’affidabilità dei propri prodotti unica sul mercato dei piccoli satelliti pur mantenendo costi molto competitivi.

 

 

Il materiale da recuperare nello spazio è solo quello dei satelliti o ci sono altri soggetti che “scaricano” matriali nello spazio?

Qualunque attività eseguita nello spazio può potenzialmente generare detriti. In passato le operazioni di rilascio di satelliti tendevano a generare una certa quantità di detriti, oltre al razzo vettore stesso. Oggi le normative per la mitigazione dei detriti spaziali prevedono una serie di misure che permettono di contenere questa situazione.

 

 

Com’è il mercato delle start up del settore spazio? In Europa ne abbiamo molte? E in Italia? Generalmente di cosa si occupano?

L’accesso al settore spaziale è sempre stato notoriamente molto difficile. Le principali barriere all’ingresso sono gli elevati capitali necessari per sviluppare tecnologia spaziale e l’abilità necessaria a muoversi agevolmente nel mondo istituzionale. Per queste ragioni, le aziende spaziali tradizionali sono colossi da decine di migliaia di addetti e miliardi di dollari di fatturato.

Il mercato sta cambiando. La miniaturizzazione della tecnologia, l’uso di componenti commerciali e ingresso di capitale privato sta generando centinaia di aziende che vogliono lanciare satelliti. La maggior parte di queste aziende siano Americane, ma anche l’Europa l’Italia – stanno dando vita a decine di nuove aziende estremamente innovative.

Quasi tutte queste aziende si occupano di erogare servizi satellitari a terra tramite costellazioni di piccoli satelliti – decine o centinaia di satelliti. Alcune di queste stanno costruendo dei piccoli lanciatori dedicati ai piccoli satelliti, altre, come l’italiana Leaf Space, si stanno occupando dell’infrastruttura a terra per comunicare con questi piccoli satelliti.

D-Orbit si distingue per la capacità di lavorare sia nel mercato spazio tradizionale che in quello New Space, offrendo tecnologie e servizi per tutti coloro che vogliono operare satelliti.

 

 

Che tipo di collaborazioni avete in programma o avete già impostato?

D-Orbit collabora con diverse altre realtà per portare sul mercato prodotti o servizi innovativi. I partner sono fondamentali per la riuscita dei programmi, come ad esempio l’importante collaborazione con un’azienda quotata nel mercato azionario australiano che vuole lanciare centinaia di satelliti per offrire servizi di comunicazione di base alle popolazioni della fascia equatoriale del pianeta, permettendone quindi il collegamento con il resto del mondo.

Oppure la partnerhsip con Arianespace e Avio, tra i più importanti players al mondo nel settore dei lanciatori.

 

 

Esiste “un’economia” dello spazio? Da quali attori è costituita?

L’economia dello spazio esiste, e ne facciamo tutti parte. Quando si parla di economia dello spazio, la gente tende a pensare solamente al segmento spaziale:

  • manifattura satellitare,
  • operazioni, lancio,
  • e così via.

In realtà l’economia dello spazio riguarda soprattutto gli utilizzatori dei servizi forniti dagli operatori spaziali:

  • governi,
  • industrie dei trasporti,
  • agricoltura,
  • fino a includere qualunque individuo che abbia uno smartphone in tasca.

Stiamo parlando di un’industria che potrebbe raggiungere migliaia di miliardi di Euro nei prossimi decenni, con applicazioni che non sono ancora state inventate.

 

 

Chi sono i vostri clienti tipo? Di quali Paesi? E dove c’è maggior richiesta in questo momento?

Oggi i nostri clienti tipo sono operatori di costellazioni di piccoli satelliti in qualunque parte del mondo e grandi costruttori di satelliti. Le costellazioni di piccoli satelliti contano in genere centinaia di elementi con un ricambio molto rapido –la vita media di questo tipo di satelliti è inferiore ai tre anni.

I nostri servizi di lancio e rilascio permettono di ridurre al minimo i tempi necessari a schierare una costellazione. I nostri servizi di rimozione offerti ai satelliti tradizionali aiutano a mantenere l’orbita di lavoro libera da detriti.

In futuro, intendiamo offrire servizi di riparazione e allungamento della vita, permettendo ai nostri clienti di prolungare la vita dei loro satelliti, riducendo ulteriormente i costi operativi e aumentare il fatturato in modo sostenibile.

 

 

Dove c’è una maggiore presenza d’imprese dedicate e impegnate nell’economia dello spazio?

Gli Stati Uniti sono sempre in prima posizione, ma secondo me i mercati più promettenti sono quelli delle economie emergenti, soprattutto in Asia.

Stiamo parlando di realtà in cui lo sviluppo economico è talmente rapido che non è possibile creare allo stesso passo le infrastrutture di telecomunicazione terrestri simili a quelle che abbiamo qui in occidente. Lo spazio permette di colmare questo divario in maniera più rapida ed economica, creando i presupposti per la fornitura di servizi che qui in Occidente diamo per scontati. Per queste nazioni, l’impatto sociale ed economico di questi servizi è incalcolabile, sia sul piano economico che su quello della qualità della vita.


info@companynote.it

Oggi dove siamo

La logisitica sartoriale che va oltre Amazon

Pubblicato il

Non c’è solo l’ingombrantissima Amazon, perché la logistica ha anche bisogno di percorsi, tempi e modalità di gestione costruite su misura.

Con una approccio sartoriale c’è Logistic Net, che da Bassano del Grappa predica un approccio alla logistica ed alla movimentazione delle merci che parte dall’adattamento al cliente.

Abbiamo chiesto al Ceo Matteo Vaccari di raccontarcelo, scoprendo che ha messo in piedi anche un comparatore di spedizioni tra i primi in Italia.

 

 


Ogni settimana raccogliamo informazioni da un Ceo e le mettiamo nel business report 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.  Per riceverlo scrivi a info@companynote.it


 

 

 

Quale parte del mercato della logistica serve Logistic Net?

Serviamo tutta la supply chain logistica, dall’import alle attività di warehousing, dalla distribuzione alla reverse logistic. Siamo inoltre deposito fiscale, deposito doganale ed escrew account.

 

 

Dove siete e perché avete scelto questa posizione?

Nasciamo a Bassano del Grappa (VI) e qui è rimasto l’head quarter del gruppo nonostante nel corso degli ultimi anni siano state aperte le filiali di Padova, Treviso, Milano e Monaco. Da Maggio 2018 facciamo parte di Bracchi Group e il network si è notevolmente ampliato grazie alle sedi di Fara Gera d’Adda (BG), Lublin (PL), Levice (SK), Dunajska Streda (SK), Ettenheim-Mahlberg (DE).

Le posizioni geografiche dei vari magazzini sono state scelte in base ad un insieme di fattori strategici quali:

– vicinanza rispetto al parco clienti gestito;

– occasioni strutturali con buon rapporto costi/benefici;

– richieste specifiche di alcuni clienti importanti.

 

 

In termini di dimensioni con chi si può confrontare il vostro polo logistico?

Il nostro polo logistico che consta di circa 180.000 mq coperti può confrontarsi, pur mantenendo sostanziali differenze di attività, processi e settori serviti,  con realtà quali:

  • Number 1,
  • Trasmec,
  • Panalpina,
  • Fiege,
  • Rhenus,
  • Traconf,
  • Movimoda,
  • Be Cube,
  • CEVA etc

 

 

Ci date qualche vostro numero? 

Fatturato: 135.000.000

Metrature coperte: 180.000 mq

Dipendenti: circa 550 (diretti)

Nr. consegne annue: 800.000

Nr. ordini evasi al giorno: circa 2000

Trend di crescita: mediamente +15% annuo

 

 

Quali sono i “problemi di offerta” del servizio che un cliente della logistica incontra abitualmente? (più referenti, fasi di stop)…e voi come vi avete risposto?

Spesso la difficoltà principale per la formulazione di un’adeguata offerta di logistica è la mancanza di dati, di informazioni e di un’accurata fase di analisi di progetto.

In questo senso nella nostra struttura sono state inserite alcune figure chiave, con un percorso di studi specifico essenziali non tanto per le competenze “teoriche” quanto per l’apertura mentale al “problem solving” e al “continuous improvement”: il logistico diventa veramente un partner del cliente quando si pone in modo proattivo nei rapporti e nella risoluzione o nel miglioramento di processi, anomalie o criticità.

Una volta definita la fase di analisi (probabilmente la più critica) e lo start-up, il cliente si trova ad avere pertanto un unico referente per tutta la supply chain, dall’inbound, alla preparazione degli ordini, dall’imballo alla spedizione: tutto questo rende il processo molto più snello e permette al cliente di concentrarsi sul proprio core business, delegando le attività logistiche a chi lo fa di mestiere.

 

 

Com’è cambiata la logistica negli ultimi anni con l’arrivo dell’eCommerce?

L’e-commerce ha stravolto procedure e operatività in ambito logistico: la crescita esponenziale degli ordini B2C ha quasi “obbligato” molte aziende a rivolgersi a specialisti del settore non essendo in grado di assolvere direttamente alle differenti tempistiche di evasione, alle nuove modalità di consegna, ai nuovi servizi accessori, all’integrazione informatica di tutta la fase di preparazione e distribuzione degli ordini.

La crescita esponenziale della “Contract Logistic” è infatti imputabile alla necessità per gli e-commerce di svincolare i costi di stoccaggio e di rendere flessibile il magazzino, aumentando la complessità delle reti di distribuzione e gestendo le scorte con report in tempo reale.

Le funzioni di magazzino devono pertanto essere perfettamente integrate con quelle della piattaforma e-commerce. Per questo il fornitore logistico di successo deve dotarsi di sistemi tecnologicamente avanzati, in grado di aggiornare in tempo reale le disponibilità dei prodotti e le funzioni di picking e d’imballaggio devono essere sempre più automatizzate, efficienti e precise.

Un altro fattore critico è la “Reverse Logistic”; la gestione dei resi, commerciali o da spedizione, è infatti un costo per l’azienda: più è efficiente il processo, più alti saranno i margini di profitto e la soddisfazione del cliente.

 

 

Abbiamo letto che è stato rifiutato l’insediamento di Amazon nella vostra zona. Come l’avete presa? E cosa sarebbe cambiato per voi in termini di concorrenza?

Amazon, nel bene e nel male, ha cambiato la mentalità del cliente/consumatore finale come poche realtà sono riuscite a fare negli ultimi anni. Tutto questo è potuto avvenire gestendo masse enormi di ordini che però hanno portato anche concorrenza spietata alle piccole attività, penali devastanti in caso di anomalie, commissioni molto alte, fornitori gestiti con tariffe quasi insostenibili.

I marketplace come Amazon pretendono che l’attenzione ricada sui prodotti e non sui venditori, limitando la presenza del brand, determinando quali articoli si possono vendere e quali no e una volta identificati i prodotti più richiesti se ne possono rifornire direttamente bypassando il rivenditore: sono pertanto uno strumento che permette di raggiungere risultati incredibili ma che deve essere utilizzato con attenzione e solo quando conviene veramente.

Noi non siamo un concorrente di Amazon quindi poco avrebbe inciso un nuovo insediamento locale; il nostro servizio è diverso rispetto a quello proposto dal colosso americano, nella maggior parte dei casi infatti siamo noi che ci adattiamo alle esigenze del cliente e non viceversa, le nostre procedure sono spesso personalizzate all’estremo per poter gestire le esigenze o l’organizzazione dei clienti (cosa che ovviamente una realtà come Amazon non si può permettere).

 

 

Quali sono i settori in cui operate maggiormente? E quali sono secondo voi i settori in cui prevedete ci sia maggior sviluppo nel settore logistico? 

Seguiamo settori merceologici molto diversi tra loro in modo da poter compensare stagionalità, competenze e picchi di lavoro: dal fashion al beverage, dall’automotive all’editoria, dal materiale plastico all’high-tech, dalla cosmesi ai grandi macchinari.

E’ difficile prevedere in quale settore ci sarà maggior sviluppo nei prossimi anni, la scelta di aver differenziato il rischio ci sta tutelando in questo senso; se proprio devo fare un “pronostico” direi che il trend di crescita potrà essere maggiore in ambito:

  • beverage ( il boom del prosecco è emblematico ),
  • nella ricambistica ( l’attenzione al post vendita è diventata ormai un “must” )
  • e nell’e-commerce in generale.

 

 

In termini di tecnologie e sostenibilità, come vi posizionate sul mercato e quali azione avete intrapreso?

Continuo a pensare che senza tecnologia e investimenti non ci possa essere un vero sviluppo nel medio-lungo termine; l’industria 4.0 ha sicuramente aiutato in questo senso.

Da parte nostra, solo nell’ultimo anno:

  • abbiamo integrato i nostri sistemi con impianti di tipo Shuttle per la movimentazione automatizzata di pallet tramite tablet in Wi-fi,
  • abbiamo creato applicazioni per la gestione in tempo reale di ordini e spedizioni,
  • abbiamo sviluppato la nuova versione di Truckpooling.it in cui ogni utente, comodamente tramite smartphone, può spedire ovunque scegliendo tra i vari corrieri in base a parametri quali prezzo/servizio/tempistiche di consegna/servizi accessori/giudizio degli utenti.

In termini di sostenibilità abbiamo fatto recentemente dei passi significativi : veicoli “pure electric” per i trasferimenti tra i vari magazzini, impianti “degassing” per tutti i carrelli elevatori, sostituzione di veicoli obsoleti con modelli Euro 6.

 

 

Quanto influisce il tempo sul vostro lavoro, in termini di velocità del servizio, stagionalità delle attività?

Assieme alla gestione dello “spazio”, il “tempo” è sicuramente il parametro più significativo. Il nostro lavoro, rispetto alla gestione “interna”,  si deve differenziare in termini di flessibilità, capacità di gestire picchi e stagionalità, capacità di evadere gli ordini in tempistiche sempre più ristrette trasformando dei costi fissi in variabili.

Combinare tutta questa serie di esigenze è un’attività molto complessa e strutturata: le fasi di analisi e gestione dei processi diventano cruciali per poter poi rispettare KPI sempre più performanti.

Purtroppo, o per fortuna nel nostro caso, non si diventa “logistici” dall’oggi al domani, le competenze richieste sono sempre maggiori e la specializzazione un tema quasi indispensabile: l’outsourcer logistico è il braccio operativo del committente, spesso l’ultimo anello della catena che si rapporta col cliente finale, fattore decisivo nella valutazione del prodotto ricevuto. Il logistico non è un semplice fornitore ma a tutti gli effetti un partner strategico.

 

 

Il settore visto dalla parte del cliente sembra confuso e frammentato. Come vi ponete sul mercato da questo punto di vista?

Sicuramente dall’esterno il settore può sembrare molto frammentato ma come in tante altre attività il momento storico ed economico quasi impone che aziende medio-piccole vengano integrate o assorbite da gruppi più grandi. Nel nostro caso è stato lo stesso: essere entrati a far parte di Bracchi Group ci sta permettendo di “sfruttare” sinergie, strutture e possibilità quasi impensabili fino a qualche anno fa.

Ovviamente tutto questo non deve modificare le caratteristiche che hanno reso i nostri servizi diversi rispetto a quelli proposti per esempio dalle grandi multinazionali: flessibilità estrema, rapporti umani consolidati, team di lavoro unito e motivato, “sartorialità” nella gestione di tutte le problematiche, customer service dedicato e diretto.

Un esempio in questo senso è sicuramente il “progetto Truckpooling.it” nato quasi per caso poco più di un anno fa da una precedente gestione: solamente dedicando le nostre risorse specializzate nel customer service e abbinando tariffe di spedizione molto aggressive, siamo già diventati, praticamente senza pubblicità, uno dei primi tre comparatori di spedizioni in tutta Italia.

Il progetto ha superato di molto le nostre aspettative e a breve sarà lanciata la nuova versione “Truckpooling PRO”, utilizzabile anche da grandi aziende, integrabile con i principali marketplace, con prezzi personalizzati in base a volumi di spedizione e raggiungimento di obiettivi e l’inserimento di servizi accessori ormai necessari nella gestione degli ordini e-commerce.


info@companynote.it

Oggi dove siamo

Connettere risparmi e imprese con i PIR

Pubblicato il

Il Paese ha pochi investitori domestici nelle imprese quotate (secondo Borsa Italiana circa il 90% sono internazionali) ma anche tanti risparmi privati e un bel blocco di medie imprese bisognose di denaro per espendersi, soprattutto sui mercati esteri.

Sono questi i presupposti della nascita dei PIR  piani individuali di risparmio – che dovrebbero aiutare la liquidità a dirigersi la dove c’è maggior bisogno, rafforzando le imprese e gli investitori italiani. Ne abbiamo raccolto i dettagli da Andrea Vismara, Ceo di Equita.

 

 


Ogni settimana raccogliamo informazioni da un Ceo e le mettiamo nel business report 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.  Per riceverlo scrivi a info@companynote.it


 

 

Cosa sono i Pir – piani individuali di risparmio? Quando sono stati introdotti, da chi e con quali intenzioni?

Sono uno strumento di investimento a fiscalità agevolata volto a veicolare i risparmi delle famiglie – perchè sono rivolti esclusivamente a persone fisiche residenti in Italia – verso il mondo delle imprese.

Sono stati introdotti con la Legge di Stabilità 2017, puntano a favorire gli investimenti di lungo periodo perché hanno un vincolo tale per cui se questi investimenti sono mantenuti almeno 5 anni danno diritto a una completa esenzione delle imposte sui proventi, che siano capital gain o cedole, e non sono soggetti alla tassa di successione. Per entrare in questo meccanismo di agevolazione, devono comunque rispettare alcuni parametri:

  • almeno il 70% dei risparmi che sono allocati a questi piani devono essere investiti in azioni o obbligazioni italiane,
  • e almeno il 30% di questo 70% deve essere investito in società che non sono presenti nel principale indice azionario (FTSE Mib 40).

Quindi un 21% del totale deve essere investito in titoli azionari o obbligazionari emessi da società un po’ più piccole, non piccolissime – lo specifico perché si è creato un po’ di equivoco. È quindi un modo per far si che un po’ di questo risparmio arrivi alle società un po’ più piccole di quelle a cui di solito arriva.

 

 

Qual è la condizione di partenza? Che da una parte ci sono le famiglie con risparmi disponibili e dall’altra Pmi bisognose di liquidità?

Senz’altro. Ci sono due presupposti alla base di questo:

  • l’assenza di investitori istituzionali domestici, in numero e con masse sufficienti, dedicati a investimenti italiani in Italia – perché in UK, Francia e Germania c’è una presenza di investitori domestici istituzionali che investe abitualmente in azioni e obbligazioni del loro paese, molto più pronunciata che in Italia, per ragioni storiche; questa iniziativa cerca anche di correggere questo.
  • La volontà di prendere i risparmi italiani e fare in modo che la maggioranza di questi vengano investiti in strumenti finanziari emessi da società italiane. E sinceramente tali investitori sono anche meno sensibili a problemi geopolitici e sono un po’ meno volatili nelle loro scelte di investimento.

Abbiamo poi un ulteriore effetto collaterale come quello di rafforzare l’industria del risparmio gestito domestica. Quindi rafforzare le imprese, utilizzare il risparmio degli italiani, fare in modo che ci sia una categoria di investitori domestici che compensi un po’ l’eccesso di investimenti da parte di soggetti esteri, e rafforzare l’industria del risparmio gestito.

 

 

Ad oggi quanto hanno “raccolto” i PIR? E quanto è il montante complessivo che ancora potrà essere convogliato sui PIR?

Nel 2017 circa 11 miliardi di Euro, più del doppio delle aspettative del MEF. Nel primo trimestre del 2018 hanno raccolto già 2 miliardi. Ovviamente i dati sono un po’ in calo rispetto al primo trimestre del 2017 ma questo è principalmente dovuto al fatto che i mercati in quel periodo erano andati molto bene.

 

 

Quali sono i soggetti intermedi mobilitati dalla nascita dei PIR? (chi raccoglie i risparmi e chi li convoglia sulle imprese…)

Le grandi case di asset management italiane che hanno lanciato fondi PIR, nonché i fondi stessi; la norma parla di “piani” ma poi questi piani possono essere implementati attraverso fondi o gestioni patrimoniali che rispettino quei parametri.

In realtà nel 99% dei casi si tratta di fondi PIR compliant, collocati da grandi case di asset management italiane come Mediolanum o Eurizon: tutti hanno lanciato i propri fondi PIR.

 

 

C’è anche un ruolo delle banche?

Le banche controllano la grande maggioranza dell’asset management italiano. Per esempio Eurizon è del gruppo Intesa, Mediolanum stessa è una banca. Oppure Arca, Anima, che hanno lanciato dei fondi PIR, sono tutte partecipate da enti bancari.

 

 

Questi sono gli ennesimi strumenti che cercano di portare capitali verso la Borsa?

Portando più capitali, anche investiti in aziende di medie dimensioni, vengono poi più facili i processi di quotazione. Questo è normale.

Nel mondo, quando si quota un’azienda relativamente piccola, la parte preponderante degli investitori è domestica. In Italia abbiamo tantissimi investitori internazionali – Borsa Italiana ogni anno comunica che oltre il 90% degli investitori sono internazionali – ma in realtà questa è una tragedia per il sistema italiano.

Perché evidentemente gli investitori internazionali oggi ci sono e domani magari no, perché seguono le opportunità sul mercato a 360 gradi. Ci deve essere invece una categoria di investitori domestici, e i PIR stanno facendo proprio questo.

I PIR hanno inoltre avuto un effetto di comunicazione positivo perché da questo punto di vista molte imprese hanno cominciato a considerare la quotazione in maniera più attiva. E soggetti come noi hanno cominciato a dire alle imprese che la quotazione era possibile: mentre prima avevamo più imprese a cui dicevamo che non potevano quotarsi perché non c’erano investitori, ora a tante possiamo dire il contrario.

C’è stato quindi un circolo virtuoso – che non definirei una stampella del sistema (i PIR) – di sviluppo dei mercati italiani, mercati che hanno bisogno di investitori, gestori, intermediari come noi e aziende.

Per questo il Governo nella finanziaria successiva ha poi introdotto un’altra novità, la detrazione delle imposte per le società più piccole che si quotano, per incoraggiarle a quotarsi; questo sta dando l’occasione ai mercati italiani di raggiungere dimensioni più adeguate alla nostra economia.

Nella relazione dell’ex presidente di Consob infatti troviamo come obiettivo quello di avvicinare i mercati italiani a quelli europei, almeno in termini percentuali del GDP; per fare questo però ci vogliono tutti gli elementi di cui abbiamo detto: investitori, risparmi, società, intermediari.

 

 

Quanto raccolto è poi finito veramente ad aziende medie oppure solo in quotate grandi?

Se i PIR avessero semplicemente seguito la regola del 21%, degli 11 miliardi raccolti nel 2017, 2 miliardi sarebbero andati a società fuori dal FTSE Mib, e le garantisco che due miliardi di risorse a società non FTSE Mib provenienti da investitori italiani non li vedevamo da secoli.

Quindi da questo punto di vista i PIR sarebbero già di per se molto positivi. Ci risulta però – da dati di Assogestioni – che i titoli non FTSE Mib, invece che il 21% abbiano ricevuto intorno al 40%. Quindi è probabile che ci si sia orientati di più verso le medie imprese.

Non bisogna comunque fare confusione; i PIR non sono per le piccole o micro imprese, perché queste non sono quotate. La critica “i PIR non portano i soldi all’economia reale, che è fatta di piccole imprese” è un nonsenso: i PIR danno risorse alle società quotate e queste devono essere società con una dimensione compatibile con lo status di società quotate.

Il fondo (dei PIR) deve essere aperto in modo da essere riscattato dal proprio sottoscrittore in qualunque momento (a discapito della relativa perdita del beneficio fiscale da parte del sottoscrittore) e deve quindi avere una liquidità intrinseca per poter far fronte alle richieste di liquidità.

Investire solo in società molto piccole, quindi estremamente illiquide, metterebbe a rischio i soldi dei propri sottoscrittori qualora dovesse verificarsi qualche fenomeno che porterebbe a riscatti superiori alle attese.

 

 

Equita ha partecipato alla creazione di questi strumenti?

Siamo stati grandi fan dell’iniziativa. Il nostro ruolo nel portare consapevolezza a livello delle istituzioni dello strumento PIR è stato di primo piano e i risultati sono ora importanti.

Quando bisognerà affrontare il discorso delle piccole imprese bisognerà comunque trovare altri strumenti, come per esempio hanno fatto in UK con i venture capital trusts.


info@companynote.it

Oggi dove siamo

Capitali di ventura – il venture capital visto da Gabriele Grecchi

Pubblicato il

Soldi, buon management e pazienza. Non sempre queste tre condizioni coesistono. Per questo il venture capital è un contesto complesso. Con problemi diffusi, come il gigantismo, ed anche connessi a specifici mercati, come quello italiano dove si vedono poche exit e anche pochi investimenti.

Ci ha dato molte informazioni sul tema Gabriele Grecchi, medtech entrepreneur, co-fondatore e amministratore delegato di Silk Biomaterials, e soprattutto autore di “Capitali di ventura. I segreti dell’industria dell’innovazione” (Egea 2018).

 

 


Ogni settimana raccogliamo informazioni da un Ceo e le mettiamo nel business report 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.  Per riceverlo scrivi a info@companynote.it


 

 

Quanti sono i Venture Capital in Italia? Quanti capitali muovono? E quanti investimenti realizzano?

Nel 2017, secondo il Rapporto di ricerca Venture Capital Monitor, il venture capital italiano ha investito soltanto 208 milioni di euro in 78 operazioni (e queste includono sia primi round, che follow-on, ovvero investimenti successivi al primo per sostenere la crescita di una startup).

Di fondi di venture capital veri e propri ce ne sono pochi: tra questi, Innogest, P101, United Ventures, Principia, Atlante e TT Venture (ora insieme con Indaco Venture Partners), Panakes, Vertis, Primomiglio.

Esistono però anche alcune realtà attive come incubatori e/o acceleratori (da Digital Magics a LVenture, passando per H-Farm e Open Accelerator di Zambon) che alle volte investono in fase molto precoce, nonché club d’investimento strutturati in vario modo che coinvolgono business angels nell’investimento seed in startup promettenti di vari settori (Italian Angels for Growth, Italian Angels for Biotech, Club Italia Investimenti e altri).

Per dare un metro di paragone, secondo il data provider specializzato DealRoom, in Europa sono stati investiti nel 2017 oltre 19,2 miliardi di euro, con la Gran Bretagna a quota 7,1 miliardi di euro. Per numero di operazioni, però, la Francia è a quota 688 contro le 672 della Gran Bretagna. Rimaniamo quindi fanalino di coda, con la perenne domanda irrisolta: “non ci sono abbastanza opportunità d’investimento, oppure manca il capitale per investire?”

 

 

Chi sono e da dove vengono i venture capitalist italiani? E da dove vengono i soldi che gestiscono e investono?

In Europa, sempre nel 2017, sono stati raccolti 9,9 miliardi di euro, mentre nel triennio 2015-2017 in Italia sono stati raccolti complessivamente 500 milioni di euro (fonte DealRoom).

La massima da rispettare è che “i soldi seguono i rendimenti”, e in Italia i rendimenti (le exit) dal mondo del venture capital tardano ad arrivare. Quindi, gli investitori istituzionali (fondi pensione, casse previdenziali o assicurazioni) e i family office – che, tradizionalmente, sono i principali sostenitori di questo tipo di iniziative d’investimento – preferiscono partecipare direttamente a operazioni estere più allettanti come prospettive (e senza magari dover pagare le commissioni di gestione a un fondo di venture capital) o semplicemente abbandonano l’asset class e si spostano su private equity o real estate, dove il profilo di rischio/rendimento è sicuramente più intelligibile.

Nel sottobosco delle startup italiane non aiuta la reputazione di dealmaker aggressivi che alcuni dei nostri venture capitalist si sono costruiti nel tempo: la distanza negoziale tra le parti è spesso enorme (su termini fra l’altro opinabili), e non è raro che ciò dipenda anche dalla differente formazione professionale delle componenti coinvolte.

Molti dei nostri venture capitalist non hanno un passato da imprenditori, ma provengono dal mondo del private equity o della gestione d’impresa (seppur innovativa), portando quindi linguaggi alle volte molto diversi da quelli parlati dagli imprenditori dell’innovazione. Quando però l’intesa si crea, è molto facile poter assistere a investimenti importanti (si veda il caso di MoneyFarm, supportata da United Ventures, o Silk Biomaterials, di cui sono AD, supportata da Principia) e chiusi rapidamente.

 

 

Quali sono le operazioni più importanti degli ultimi anni dei VC italiani?

Quello che sta lentamente avvenendo in Italia è che gli investimenti maggiori si stanno concentrando in nicchie dove il nostro Paese può offrire realmente un vantaggio competitivo.

Ad esempio, quello delle scienze della vita: nel 2017, Greenbone ha raccolto 8.4 milioni di euro, BiovelocITA 7,2, Genenta Science 7, Wise 6,5, Pharma Integration 6, Empatica 5. Rispetto a queste, solo Satispay (fintech) ha fatto meglio, raccogliendo nello stesso anno 18,5 milioni di euro.

Questo è un segnale importante, poiché rafforza l’idea che il capitale per investire in Italia c’è, è pronto a seguire startup di successo con round di follow-on, ma deve poter trovare idee e progetti imprenditoriali all’altezza in termini di visione ed execution (fattori che accomunano le operazioni elencate).

 

 

Fanno anche investimenti all’estero? E ci sono VC stranieri che vengono ad investire in Italia? In quali settori?

Su questo aspetto, singoli rari casi di attività cross border non fanno testo rispetto al trend complessivo. Solo il life science è riuscito ad attrarre in qualche modo investitori stranieri: si pensi al caso di Sofinnova (fondo leader in Europa e negli Stati Uniti), che ha creato una joint-venture con Fondazione Telethon per investire nella traslazione clinica dei progetti sviluppati dalla onlus sulle malattie rare.

Ci sono però tentativi di company building nel nostro paese – come il caso di Casavo – dove investitori esteri sostengono un business case specifico che può avere nel nostro Paese un test importante prima di essere scalato in altre regioni. Ma rimane una chimera pensare che i fondi della Silicon Valley vengano in Italia come vanno in Israele. D’altro canto, i family office nostrani sono molto attivi su operazioni all’estero, grazie anche a club d’investimento molto ben connessi, come U-Start.

 

 

Quali sono i settori oggi preferiti dai VC italiani?

I venture capitalist italiani stanno cercando di seguire il trend complessivo europeo di investimento su:

  • deep tech,
  • fintech,
  • soluzioni healthcare,
  • biotech & medtech,
  • artificial intelligence,
  • analytics e SaaS.

Le difficoltà rimangono nel trovare opportunità d’investimento sufficientemente solide in queste aree. Spesso può capitare che la tecnologia sia molto forte – ad esempio, se proveniente dai molti centri di ricerca eccellenti presenti sul nostro territorio – ma venga totalmente a mancare il contributo manageriale per sviluppare ulteriormente il progetto e portare a mercato un prodotto o servizio.

Il problema di questo risiede nel fatto che non è stata creata una cultura imprenditoriale come invece è avvenuto negli anni ’50 intorno a Stanford, dove il rettore Terman spingeva i propri studenti a creare aziende per commercializzare i prototipi di tecnologie che avevano sviluppato per i contractor militari, obbligando al contempo i professori a partecipare come consiglieri di amministrazione in queste startup ante-litteram e offrendo spazi per uffici e capannoni nei dintorni del campus.

 

In quali settori pensi ci siano le migliori occasioni di investimento per i VC, in Italia?

La vera opportunità di arbitraggio finanziario per il mondo VC in Italia è nel settore delle scienze della vita. I nostri centri di ricerca competono in alcune aree a pari merito con gli omologhi californiani o del Massachusetts, ma hanno il vantaggio di “costare” meno in termini di risorse umane.

Inoltre, la domanda di innovazione in questo campo è pressoché infinita (i sistemi sanitari nazionali vogliono soluzioni tecnologiche che riducano i costi, le big pharma cercano novità per le proprie pipeline prodotti, e i pazienti vogliono stare meglio e guarire più in fretta), mentre l’offerta è ridotta alla fonte dalle difficoltà di “hackerare” la biologia.

Viceversa, nel mondo digitale la domanda d’innovazione è satura e non esistono in Italia grandi player attivi nell’M&A come negli Stati Uniti, e viceversa l’offerta d’innovazione è sovrabbondante, essendosi ridotte le barriere all’ingresso nel corso degli ultimi 10 anni.

 

 

Su quali elementi è basato finora il modello di VC. E come potrà cambiare?

Il problema del modello “venture capital” è che molto fondi si sono trasformati in asset manager: in termini di net present value, i VC guadagnano molto di più dalle commissioni di gestione che dall’improbabile premio di performance derivante dal cosiddetto carried interest (ovvero, il 20% a loro distribuito rispetto al totale di capital gain generato dal fondo per i propri investitori).

E questo disallinea tremendamente gli interessi tra limited partners (ovvero gli investitori nel fondo) e i general partners (i gestori del fondo). Si tratta inoltre di un’asset class dove si verifica una fortissima concentrazione dei risultati positivi: pochi player registrano i migliori rendimenti di tutto il settore, mentre la maggior parte dei fondi ottengono performance misere.

E infine c’è, nel mondo, un trend verso il gigantismo – in parte collegato anche al primo problema delle commissioni di gestione – con fondi multimiliardari che dovranno poi fare exit più che multimiliardarie per poter restituire il capitale con un ritorno apprezzabile per i propri investitori.

Quello che già sta cambiando è che alcuni fondi smart stanno applicando framework complessi di decision analysis per migliorare i propri processi d’investimento (si dice che occorrano 7 anni e 30 milioni di dollari per insegnare a un VC a fare il proprio lavoro…a spese dei suoi investitori), altri stanno sfruttando i big data per migliorare il loro accesso alle proposte d’investimento migliori (che rimane l’unico vero driver di sovraperformance: investire prima degli altri nei progetti più promettenti a valorizzazioni convenienti) e altri ancora stanno aumentando considerevolmente il numero di scommesse che fanno, proprio riflettendo sull’asimmetria della distribuzione dei rendimenti del settore (aumentando quindi la propria probabilità di incappare nelle startup vincenti).

 

 

Ci sono investitori italiani (istituzionali) che oggi non sono ancora entrati nell’industria del VC? Chi sono o potrebbero essere?

I fondi pensione italiani hanno 160 miliardi di euro di masse gestite, e con ragionevole certezza – guardando ai loro bilanci e ai dati ufficiali delle associazioni dei fondi – si può affermare che investano per oltre il 70% in Titoli di Stato o obbligazioni di altro genere. Hanno poi una quota parte in titoli azionari e, alcuni, sono attivi anche negli investimenti reali (come quelli immobiliari).

Se si ipotizzasse che anche solo un 1% delle loro masse fossero investite gradualmente in venture capital italiano, si potrebbe arrivare a una dimensione del settore in Italia molto più importante di quella attuale. Certo è che dovrebbero anche investire molto altro all’estero, proprio in ottica di miglioramento del proprio profilo d’investimento (l’endowment dell’Università di Yale – che si comporta in modo simile a un fondo pensione – investe il 18% in venture capital).

 

 

Quali sono le contraddizioni e i conflitti di interesse del settore?

Nel 2012 è uscito un interessante report della Kauffman Foundation, dove riportavano proprio contraddizioni e conflitti d’interesse del settore, partendo da un’analisi del loro grande portafoglio di venture. In estrema sintesi, solo 20 dei 100 fondi su cui hanno nel tempo investito sono riusciti a generare rendimenti superiori di almeno tre punti percentuali rispetto a quanto registrato dalla borsa nello stesso periodo, e la metà di questi erano fondi che avevano iniziato a investire prima del 1995.

La maggior parte di questi fondi, infatti, considerate le commissioni e il famigerato carried interest, non ha mai battuto i mercati azionari (possibile benchmark del settore).

Inoltre, parlando del gigantismo del settore, la Kauffman Foundation segnala che solo 4 dei 30 fondi più grandi di $400 milioni su cui aveva investito sono riusciti a battere i rendimenti del mercato. Uno dei problemi correlato a quest’ultimo tema, sul fronte degli investitori istituzionali, è che, di fatto questi spesso devono “riempire” delle caselle di asset allocation, ovvero scegliere dei fondi per gli investimenti in determinate categorie (ad esempio, il venture capital), ed essendo investitori molto capienti, si trovano in difficoltà a investire grandi somme di denaro in una miriade di fondi troppo piccoli, e quindi scelgono di investire in pochi fondi enormi risorse (fondi che poi non riescono a dare i risultati sperati, ma semplificano il lavoro degli allocatori di questi investitori istituzionali).

Un altro tema riguarda il fatto che spesso gli investitori istituzionali si affidano a narrative seduttive che, dietro a metriche di dubbia validità (come il vintage year, la performance di quartile o l’IRR), nascondono una mancanza di persistenza nella performance dei fondi di venture capital, i quali fra l’altro vedono i propri gestori impegnare solo l’1% del capitale investito, proteggendosi in questo modo dai possibili scarsi rendimenti del fondo che essi stessi gestiscono.

Anzi, il tema dell’IRR viene utilizzato proprio per mostrare un track-record positivo nel breve termine e aiutare quindi a fare fundraising multipli in pochi anni, mentre il test di lungo periodo (un ritorno cash-on-cash al netto delle commissioni di gestione superiore, dopo 10 anni, di almeno 2 volte il capitale investito) viene il più delle volte fallito.

 

 

Come potrebbe essere il settore tra 20 anni?

Credo si ritornerà a vedere, dopo questo periodo di euforia, fondi di investimento meno affetti da gigantismo (quindi, sotto i $400 milioni) e per i quali i gestori impegnano almeno il 5% del capitale del fondo.

E numerosi investitori istituzionali proseguiranno ad allocare sempre più risorse in investimenti diretti, risparmiando quindi in commissioni di gestione e carried interest.

Infine, dato che sarà sempre più chiaro che l’asset class può dare risultati positivi solo se si è in grado di partecipare ai fondi più di successo – che tuttavia non possono aprire la sottoscrizione a un numero infinito di investitori – molti istituzionali ridurranno la loro allocazione in venture capital a vantaggio dei mercati azionari tradizionali o al private equity.


info@companynote.it

Oggi dove siamo

Cosa spinge la logistica a cambiare così velocemente?

Pubblicato il

Sostenibilità, sviluppo tecnologico e centralità del cliente sono solo alcuni degli elementi che stanno forzando il mondo della logistica, spingendolo verso un veloce cambiamento.

Da ognuno di questi partono stimoli altrettanto nuovi, come l’On Demand Delivery, lo shopping on line, la robotica, la realtà aumentata e la geolocalizazione.

Un pacchetto di variazioni che mutano il corso della nuova logistica, come racconta a Company | Note Alberto Nobis, Presidente e Amministratore Delegato DHL Express Italia.

 


Intervista estratta dal business report 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.  

Per riceverlo scrivi a info@companynote.it


 

Quali sono i fattori che oggi sollecitano di più i cambiamenti della logistica?

Il futuro della logistica dipende da quattro elementi fondamentali nel presente:

  1. le persone,
  2. la centralità del Cliente,
  3. la sostenibilità,
  4. lo sviluppo tecnologico.

Lo sviluppo tecnologico è, di fatto, l’elemento che connette gli altri tre.  In questi anni siamo infatti testimoni di quanto l’impiego della telematica e dell’ICT più in generale permettano all’industria logistica di essere all’avanguardia, oltre ad essere più efficiente in termini di controllo dei costi.  Restare un passo oltre la curva richiede ispirazione, innovazione e impegno per esplorare nuovi trend prima di altri.  I trend sono infatti notoriamente difficili da predire e per comprendere con anticipo quali trend abbiano un potenziale davvero dirompente, DHL ha creato un programma denominato DHL Trend Research.  Questo programma mette al centro dell’indagine la prospettiva del Cliente e applica un approccio aperto per individuare i trend che hanno il potere di modificare lo status quo.

Il programma pubblica regolarmente un report, il Logistics Trend Radar che, da più di quattro anni, aiuta sia DHL sia i nostri Clienti ad essere pronti per le sfide e le opportunità del futuro, plasmando così la logistica del nostro futuro.  Lo studio cattura lo sviluppo dei trend che muovono la società, il mercato e la tecnologia innescando esperimenti pilota che hanno poi trovato un campo di applicazione sia all’interno del Gruppo Deutsche Post DHL sia nel settore logistico in senso lato.

Passando dalla ricerca alla pratica e adottando un approccio proattivo nel fare leva sui trend, le aziende possono infatti assicurarsi un punto di vista privilegiato su fattori che possono cambiare il mercato di riferimento. Prendiamo ad esempio alcune tecnologie rilevanti che si sono sviluppate in “game changer” nell’innovazione logistica degli ultimi anni: ad esempio la realtà aumentata e la robotica.

Si stanno facendo passi da gigante nell’area dell’interazione e collaborazione tra uomo e macchina nel settore logistico, ad esempio la REALTA’ AUMENTATA fruita attraverso smart glasses.  Finora adoperati per il picking degli ordini in logistica (‘vision picking’), gli smart glasses rendono possibile anche operare a mani libere per attività come l’imballo, lo smistamento e l’assemblaggio dei prodotti.  Un progetto pilota di DHL, con la collaborazione di un Cliente, ha dimostrato ad esempio un aumento dell’efficienza del 25% nelle operazioni, registrando feedback positivi dagli utenti per benefici quali la connettività in tempo reale degli smart glasses con il sistema gestionale di magazzino, l’interfaccia innovativo e l’avere le mani libere dallo scanner per leggere i codici a barre dei prodotti. Quindi maggiore efficienza e processi senza errori, con una riduzione dei tempi di gestione del magazzino e minori costi.  La realtà aumentata si sta rilevando quindi sempre più come un importante asset per la logistica in grado di aumentare la qualità del servizio, riducendo i rischi e lo stress derivanti dall’operatività tradizionale.

Uno sviluppo similare si può vedere nella ROBOTICA e nell’automazione applicate alla logistica.  I robot industriali di nuova generazione sono più leggeri, flessibili, più facili da programmare e hanno costi più contenuti.  I test fatti da DHL con l’impiego di robot collaborativi hanno dimostrato che possono affiancare gli operatori di logistica, supportandoli nell’esecuzione di attività ripetitive e fisicamente pesanti.

Alcuni esempi di robot collaborativi sviluppati dal Gruppo Deutsche Post DHL attraverso il DHL Innovation Center (in Germania), inaugurato nel 2007: è la nostra piattaforma dedicata all’innovazione con l’obiettivo di trasformare trend e intuizioni del mercato in nuovi concetti di business e prototipi; stabilire partnership a lungo termine e collaborazioni focalizzate sui trend dell’industria logistica:

  • Sawyer (2016): robot collaborativo, realizzato in collaborazione con la società Rethink Robotics, in grado di compiere attività con precisione e agilità in affiancamento agli operatori di magazzino.
  • PostBOT (2017), un carrello robotizzato in grado di affiancare i postini di Deutsche Post nelle loro attività di consegna in città, in tutte le condizioni climatiche. Può trasportare fino a 150kg e i suoi sensori permettono al mezzo di seguire automaticamente i movimenti del postino lungo tutto il percorso, evitando gli ostacoli e fermandosi ogni volta che è necessario. PostBOT è stato progettato in collaborazione con la società francese Effidence S.A.S. ed è in fase di test nella città tedesca di Bad Hersfeld.
  • Un ulteriore progetto in collaborazione con Effidence è EffiBOT, robot collaborativo applicato nel picking degli ordini a magazzini. Il robot è un carrello completamente automatizzato che segue gli operatori nei loro spostamenti in magazzino e assolve alla maggior parte del lavoro fisico. E’ specificamente progettato per lavorare in sicurezza e in simbiosi con l’uomo, sollevandolo dalle attività più onerose in termini di spostamento dei pesi.

Per ulteriori approfondimenti: DHL Logistics Trend Radar 2018/19

 

 

Lo shopping online e più in generale le nuovi abitudini del consumatore (anche nelle consegne B2B) in che modo vi influenzano?

 

Lo shopping online mi offre l’opportunità di fare un ulteriore esempio di ICT applicata alla logistica: il servizio DHL “On Demand Delivery” (ODD).  L’evento della consegna della spedizione si è evoluto, rispondendo alle esigenze di Clienti mittenti e destinatari.  I Clienti chiedono di poter ricevere la merce ordinata esattamente quando ne hanno bisogno, nel luogo più comodo per loro, che può variare lungo la catena logistica.

Con lo sviluppo di tecnologia di geolocalizzazione in tempo reale e analisi su base app, il concetto di consegna si è totalmente modificato e l’eCommerce è stato un “game changer” in questo contesto.  È un’esperienza che mette al centro l’eShopper sempre più consapevole e critico nella selezione dell’eShop e DHL Express è in grado di soddisfare  le sue esigenze.  Personalizzazione dunque come chiave vincente dell’eCommerce che accompagna l’eShopper in tutte le fasi, soprattutto in quella finale in cui si aspetta di poter scegliere le modalità di ricezione a lui più consone senza doversi adattare ad esigenze altrui.

Nel mercato virtuale si inserisce DHL Express con il servizio ODD – On Demand Delivery: un’opportunità che aggiunge valore a chi fa eCommerce e che soddisfa le esigenze dell’eShopper, diventandone l’interlocutore ideale. In pochi e veloci click permette all’eShopper di personalizzare al massimo il tempo e il luogo di consegna, sia attraverso PC sia Smartphone, e all’eShop di distinguersi dai concorrenti e competere nel mercato con un valore aggiunto, promuovendo ulteriormente le vendite e la fidelizzazione del Cliente.  Attraverso un dialogo diretto con DHL Express, ODD notifica all’ eShopper la data prevista di consegna, offrendo molteplici modalità di personalizzazione: riprogrammarla in una data più consona, richiedere la custodia della spedizione per più giorni, ritirare i documenti o le merci presso uno dei tanti punti DHL, modificare l’indirizzo, fare consegnare ai propri vicini o permettere al corriere di lasciare il pacco davanti alla porta di ingresso.

Ecco che cosa intendiamo quando parliamo di centralità del Cliente.  È un aspetto fondamentale per soddisfare le richieste dei Clienti, che sempre più si muovono verso un’esperienza di logistica veloce e conveniente. L’aumento dei prodotti che possono essere acquistati online – soprattutto nel mercato B2B, sta definendo il nuovo paradigma di soluzioni logistiche Multicanale per il B2B. Le richieste dei Clienti stanno facendo inoltre registrare una crescita nel settore dei beni che richiedono temperatura controllata e tempi di consegna stringenti. La catena del fresco richiede e genera innovazione in termini di imballaggi, stoccaggio e consegna di prodotti quali frutta e verdure e medicinali.  In termini di innovazione sull’ultimo miglio, un’area cruciale sarà l’integrazione dei servizi di logistica con la domotica.

 

 

Come interviene la digitalizzazione nelle fasi di imballaggio, carico, trasporto e consegna?

 

L’innovazione digitale – sia essa la gestione domotica dei magazzini o la consegna dell’ultimo miglio con mezzi senza autista – sta spingendo la crescita della rilevanza e della presenza della logistica nella vita quotidiana, portandola alla ribalta della cronaca e dandole un nuovo ruolo come guida del cambiamento a beneficio della società. Dopo la globalizzazione, lo sviluppo del digitale rappresenta l’attuale più grande opportunità per il settore logistico nel contesto dell’efficienza operativa, della sostenibilità, di nuovi modelli di business e miglioramento dell’esperienza da parte dei Clienti. Il percorso di digitalizzazione del Gruppo è infatti iniziato e concentra gli investimenti su innovazioni che hanno il potenziale per risolvere problemi di business reali e sfruttare nuove opportunità. Ad esempio, l’impiego della realtà aumentata nei magazzini per aumentare l’efficienza dei robot per picking in magazzino, migliorando i tempi e supportando gli operatori in attività ripetitive.  Oppure, nuovi sensori nelle spedizioni forniscono ai nostri Clienti informazioni in tempo reale sulla posizione e sulle condizioni delle merci, utilizzando l’Internet of Things.

 

 

Oggi la tracciabilità (digitale) dei colli/pacchi quanto è diffusa? Oggi quanta merce (in percentuale) ancora viaggia senza essere tracciata (in tutto il mercato, non in DHL)?

 

Non ho evidenza della tracciabilità delle merci in tutto il mercato ma posso dirle che in DHL ogni fase della vita della spedizione è tracciata.  Nel settore del corriere espresso, la trasparenza delle informazioni è un elemento affascinante: per ogni settore merceologico è infatti fondamentale che i due soggetti interessati – mittente e destinatario – possano contare sulla trasparenza nei sistemi di produzione.  Tramite il codice di accompagnamento della merce (tecnicamente Air Way Bill) il mittente e il destinatario possono vedere lo status della spedizione in maniera trasparente, attraverso tutti i check point (circa 60).

 

La geolocalizzazione come sta cambiando il lavoro pratico dei trasportatori?

La geolocalizzazione, o posizione delle consegne, è la base per un tool aziendale che determina in modo efficiente il numero dei corrieri per Service Center ed il giro del corriere. Il tool viene usato ad ogni variazione sensibile del volume per ottimizzare il network distributivo e garantire il miglior servizio al Cliente.  DHL Express sta inoltre sviluppando un tool per ottimizzare e automatizzare il giro del corriere basato sulla sequenza degli Stop e sulla geolocalizzazione degli stessi, creando il percorso ottimale giornalmente. In questo modo, il tool guiderà il corriere durante la pianificazione delle giornata lavorativa con adeguamenti costanti durante la giornata stessa.

 

 

Ci sono statistiche sulle tipologie di trasporto più diffuse?

Per quanto riguarda DHL Express Italy, posso darle una fotografia della flotta impiegata dai nostri fornitori per le fasi di Ritiro e Consegna (Pick-Up & Delivery) e per le lunghe percorrenze (Linehaul).  La maggioranza della flotta è composta da:

  • furgoni (2019),
  • seguiti da cassonati (433),
  • motrici (127),
  • trattori e rimorchio (107),
  • van (54).

In flotta abbiamo anche 3 barche per il servizio a Venezia, 20 scooter, 6 bike e 3 triclò.  Come vede è una flotta che risponde a tutte le esigenze di trasporto, compreso l’ultimo miglio con mezzi a impatto zero per il centro città.  1.960 di questi veicoli sono stati rinnovati a partire dal 2014 per un investimento totale di 55 milioni di Euro.  Al fine di rinnovare la flotta e di confermare l’impegno a ridurre le emissioni di CO₂ nell’ambiente, DHL Express Italia in questi ultimi anni ha siglato accordi con le principali case costruttrici.

Il piano di rinnovamento della flotta è iniziato nel 2010 con l’obiettivo di diventare la prima azienda ‘green’ di trasporto espresso in ltalia.  Nel gennaio 2014 DHL Express Italia ha modernizzato l’intera flotta terrestre di veicoli, grazie a un accordo con una delle principali case costruttrici italiane per la fornitura di 1.700 furgoni a basso impatto ambientale.  Al termine dell’operazione, DHL Express Italia potrà contare su una flotta 100% di ultima generazione: oltre 300 mezzi medi pesanti (tra Trattori-Motrici e Cassonati/furgoni) esclusivamente Euro VI Diesel, Metano o con alimentazione Natural Power a gas naturale compresso (GNC) e liquefatto (GNL).  I nostri mezzi medi-pesanti percorrono ogni giorno più di 100.000 Km. L’esclusivo impiego di veicoli sostenibili rappresenta un impegno concreto nei confronti dell’ambiente e delle persone.

 

La nuova attenzione per la sostenibilità sta influenzando in modo decisivo i cambiamenti nei trasporti o ci sono resistenze?

 

La sostenibilità è una priorità nell’agenda del comparto logistico: governi, municipalità e operatori del settore stanno stringendo accordi a livello mondiale per la riduzione delle emissioni di CO2 e degli sprechi. L’elettrificazione delle flotte e delle infrastrutture offrono un enorme potenziale di sostenibilità per la logistica.

Il settore dei trasporti è responsabile del 23% delle emissioni nocive di gas serra nel mondo.  Noi crediamo che un’azienda moderna debba farsi carico di trovare soluzioni che permettano di conciliare le esigenze del business – la nostra attività di consegna urgente door to door che ha come missione la soddisfazione del Cliente che ci affida la sua spedizione e vuole che questa arrivi con puntualità, precisione, nei tempi e nei modi concordati – con il benessere del Cliente come cittadino, che vive in una città sostenibile, attenta alla qualità della vita delle persone e alla valorizzazione  degli spazi comuni e del suo patrimonio verde.  Come azienda leader nel settore corriere espress aereo internazionale è nostro dovere conciliare le esigenze di business con quelle di sostenibilità.

Nel Marzo 2017, il Gruppo DPDHL ha aggiornato i propri target di risparmio energetico e ha annunciato al mercato globale l’ambizioso piano di riduzione a zero entro il 2050 dell’indice di efficienza legato alle emissioni di CO2  nelle nostre attività, avviando contestualmente una serie di azioni, tra cui la piantumazione di oltre 1 milione di alberi l’anno entro il 2025.  Il precedente target ambientale – migliorare del 30% l’indice di efficienza legato alle emissioni di CO2 rispetto al 2007 – è stato raggiunto nel 2016, quattro anni prima del previsto, grazie all’adozione di una vasta gamma di misure di ottimizzazione della flotta dei veicoli, degli edifici e delle reti logistiche del Gruppo.

Nel perseguimento del nuovo e ambizioso obiettivo, il Gruppo spera di contribuire significativamente nel portare il riscaldamento globale ben al di sotto dei due gradi Celsius stabiliti nella Conferenza sul clima di Parigi del 2015 (COP 21), così come all’adempimento dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile stilata dalle Nazioni Unite. Il Gruppo Deutsche Post DHL vuole diventare il leader di mercato nel settore della logistica verde e prevede di espandere il proprio portafoglio di prodotti e servizi ecologici per aiutare anche i Clienti a raggiungere i propri target ambientali.

DHL Express Italy, che è l’azienda del Gruppo DPDHL, che rappresento, contribuisce all’indice di efficienza delle emissioni di CO₂ del Gruppo: nel 2017 abbiamo emesso in atmosfera il 76% in meno di CO₂ rispetto al 2007, grazie a una flotta che garantisce il massimo dell’efficienza e ha stipulato l’accordo volontario con il Ministero dell’Ambiente per aderire al “Programma nazionale per la valutazione dell’impronta ambientale”. L’accordo ha l’obiettivo di promuovere progetti comuni finalizzati all’analisi e riduzione dell’impronta climatica relativa al settore dei servizi di corriere espresso. DHL Express Italy analizza e contabilizza le emissioni di CO₂ equivalenti prodotte dalla propria organizzazione lungo tutta la catena operativa, allo scopo di controllarle.

Ciò equivale a investire, attraverso azioni continuative che si possono riassumere nei nostri investimenti in Italia in infrastrutture sostenibili e in una flotta veicoli sostenibile, oltre ad un attento controllo dei target che ci siamo posti nell’ambito del consumo energetico, in termini di riduzione dei consumi di riscaldamento ed elettricità delle nostre sedi.

Questo è possibile grazie al contributo di tutti: il monitoraggio mensile dei consumi, le comunicazioni ai Colleghi e la condivisione del trend. Sono questi i driver che fanno scaturire le possibili azioni in ciascuna delle nostre 82 sedi e anche noi possiamo fare la differenza, ogni giorno, mettendo in pratica il principio GoGreen della nostra strategia. Ridurre i consumi significa eliminare gli sprechi e abbattere le emissioni in atmosfera, dando un piccolo contributo all’ambiente in cui viviamo. I prossimi anni saranno molto importanti dal punto di vista energetico: le nuove sedi che mano a mano apriremo o rinnoveremo su tutto il territorio italiano nell’ambito del nostro piano di investimenti, avranno impianti e tecnologie moderne e più efficienti e ci aiuteranno a migliorare il trend di riduzione delle emissioni.  Impiegheranno energia pulita e rinnovabile e attrezzature ad alta efficienza energetica, in linea con la Certificazione LEED.

Un ulteriore esempio della nostra strategia in termini di mobilità sostenibile, è la scelta che abbiamo operato nel 2015 con l’introduzione di auto ibride nella nostra flotta delle auto aziendali per la Forza di Vendita.  Le nostre persone hanno compreso che l’impiego di auto ibride è un passo ulteriore per mettere in pratica ogni giorno la responsabilità sociale d’impresa.  Tra i benefici che abbiamo riscontrato: riduzione dei consumi e dell’emissione di gas nocivi in atmosfera, nell’ordine di centinaia di tonnellate di CO₂ in base al modello dell’auto; l’efficienza, perchè l’ibrido non spreca energia, ma la recupera grazie alla frenata rigenerativa con la quale ricarica la batteria; la riduzione dei costi di gestione: assenza delle componenti meccaniche soggette ad usura, lunga durata di pneumatici e freni, perchè la frenata rigenerativa li sollecita di meno.

Un esempio a livello di Gruppo Deutsche Post DHL, in termini di evoluzione della flotta dei veicoli: il Gruppo ha sviluppato nel 2012 lo StreetScooter, in collaborazione con l’Università di Aquisgrana.  Si tratta di un furgone elettrico progettato per la consegna di posta e colli, adatto a zone rurali e aree metropolitane medio-piccole.  Ha un’autonomia di 80km, equipaggiato di una batteria agli ioni di litio e un motore asincrono (elettrico in corrente alternata) con potenza di 38kW.  Ad oggi, il Gruppo DPDHL impiega circa 6.000 di questi mezzi elettrici, che percorrono oltre 26 milioni di Km/anno e riducono di 20.000 tonnellate le emissioni di CO2/anno.

 

 

Cloud computing e Big Data in che modo vi stanno aiutando in termini di tempi, efficienza…?

 

La logistica e i Big Data sono una coppia perfetta.  Il settore della logistica è infatti in una posizione ideale per beneficiare degli avanzamenti tecnologici e metodologici derivanti dalla gestione dei Big Data.  Di fatto, la logistica ha nel proprio DNA la gestione dei dati, come suggerisce l’etimologia della parola, che deriva dal Greco, e significa “scienza dei numeri/logica matematica”.

Al giorno d’oggi gli operatori logistici gestiscono flussi massivi di merci creando, nel contempo, moltissimi dati.  Mi riferisco al fatto che, nel mondo, ogni giorno girano milioni di spedizioni, accompagnate da informazioni quali origine e destinazione, dimensioni, peso, contenuto e localizzazione: queste informazioni sono tutte tracciate nei Network globali di distribuzione degli operatori di logistica.  La domanda è se il valore di questi dati sia pienamente messo a frutto.  Probabilmente no.  C’è un enorme potenziale da sviluppare per migliorare l’efficienza operativa e l’esperienza dei Clienti e per creare nuovi modelli di business.

Pensiamo, ad esempio, ai benefici che si possono trarre in termini di ottimizzazione delle consegne per l’ultimo miglio, che è anche il più costoso nella catena logistica. L’ottimizzazione delle route dei corrieri porta infatti a ridurre i tempi di consegna per ogni stop, a beneficio del Cliente.  Il processare rapidamente le informazioni in tempo reale supporta questo obiettivo.  Un’altra applicazione dei Big Data può avvenire, ad esempio, nella fase di carico e scarico di un mezzo: attraverso un sensore applicato alle spedizioni, si può innescare un calcolo dinamico della sequenza ottimale delle consegne, liberando il corriere dal doverlo fare manualmente.

Questi sono solo alcuni esempi delle possibilità che la gestione dei Big Data offre alla logistica. L’analisi sofisticata dei dati è in grado di consolidare un settore come questo, tradizionalmente frammentato, mettendo i fornitori di logistica in pole position in qualità di “motori di ricerca nel mondo fisico.“

 

 

Rispetto a tutti questi fattori, come cambia il management che lavora nel settore? Quali sono le figure manageriali emergenti e richieste di più in questo momento?

 

Anche nel nostro settore, il compito del Management è sempre più gestire l’accelerazione di alcuni nuovi fenomeni come le nuove tecnologie, modalità di interazione e creazione di contenuti e modelli di consumo alternativo; questo vuol dire gestire anche l’ansia dei collaboratori, accompagnarli nel cambiamento, aumentare l’employability di medio-lungo periodo.

Il Management è focalizzato sulla Business Strategy e, con il supporto delle funzioni preposte come quella HR, è fondamentale integrarla con una People Stategy coerente delle organizzazioni. Nel corso di questi ultimi due anni abbiamo inserito nuove professionalità, competenze ed esperienze quali:

  • E-commerce Sales (conoscenza della filiera E-Commerce con particolare riferimento alle operations, esperienza nella vendita di servizi correlati all’e-commerce in ambito B2B, orientamento all’innovazione)
  • Business Intelligence Manager (responsabilità di gestire il processo di trasformazione di dati e informazioni con l’obiettivo di fornire insight che permettano al business di prendere decisioni strategiche; analisi e interpretazione di dati di mercato e trend commerciali, studi di mercato e di geomarketing per lo sviluppo di strategie di business);
  • Product Manager con conoscenza approfondita del mercato e-commerce, per la creazione di servizi a valore aggiunto e di soluzioni ad hoc per il mercato ecommerce.

Lato People Development, ci stiamo attrezzando anche con una suite di strumenti per la valutazione e misurazione delle competenze digitali (Digital Readiness) delle nostre persone, che ci possano consentire di accompagnare loro e l’organizzazione nel processo di Innovation (le aree, come detto, sono prevalentemente 4: explorer, thinker, achiever, socializer). Le Persone sono e sempre saranno il cuore pulsante del settore della logistica.  Trend quali robotica e automazione stanno solo ridefinendo il futuro disegno dell’organizzazione delle risorse umane che gravitano in questo settore.


info@companynote.it

Oggi dove siamo

Piccolo menu per una dieta informativa sana e tranquilla

Pubblicato il

Tratto da www.centodieci.it

di Antonio Belloni

Oggi lettura e informazione sono spesso attività confuse e senza metodo. È possibile rimetterle in ordine?

Fuggire il caso

La prima delle piccole azioni per fuggire un’informazione disordinata è evitare la casualità.

Tutte le informazioni hanno pari dignità. Non c’è qualcosa che possiamo solo leggere sul tram, qualcosa d’altro che possiamo cercare in un libro solamente dopo le 19 in silenzio alla scrivania, oppure solo in coda al supermercato, o in un rifugio di montagna davanti a una candela.

Tutti abbiamo colleghi e amici multitasking, anche quelli che maneggiano l’informazione abitualmente come giornalisti o insegnanti, che leggono davanti alla televisione accesa, scorrono la timeline di Twitter a tavola mentre i figli stanno parlando con loro, o peggio mentre sono davanti a noi a cena, pur essendo in una cena a due.

Ovunque possiamo recepire informazioni da un report di McKinsey, o leggere Mauro Corona, o scorrere i post dei nostri contatti di LinkedIn; ma non tutti i luoghi o le situazioni ci aiutano ad apprendere e incamerare le informazioni allo stesso modo.

Viva l’abitudine

La miglior garanzia per fuggire la casualità e guadagnare concentrazione – che significa avere più capacità e probabilità di capire, elaborare e ricordare quello che stiamo leggendo – è sottrarsi alla distrazione.

Che sia una mezz’ora prima di colazione o appena arrivati in ufficio, un’ora la sera prima di dormire – magari sottraendo del tempo alla tv… – oppure anche due o tre ore il sabato mattina, è molto efficace dedicare all’informazione (lettura) dei tempi fissi.

Ma attenzione: non è per nulla un risultato semplice, considerati i ritardi, gli impegni e le accelerazioni a cui siamo abituati.

Chi ci riesce acquisisce però uno stato mentale di tranquillità informativa che predispone ad apprendere con calma e senza gli stimoli negativi dei social network, che portano subito a una reazione sulla tastiera e non a una riflessione interiore.

L’abitudine a chiuderci in una piccola scatola mentale dell’informazione dovrebbe aiutarci invece a raggiungere livelli di profondità progressivi:

  • prendere qualche appunto,
  • sottolineare o stampare solo quello che ci interessa,
  • magari archiviarlo.

Selezionare

Il tempo che fino a ieri Ceo e manager importanti dedicavano all’informazione, spesso quotidiana, aveva una caratteristica: si leggeva presto la mattina per avere un vantaggio sui concorrenti. Oggi non c’è più la necessità di arrivare prima, ma serve il tempo sufficiente a muoversi nell’abbondanza e selezionare.

Sul web sono disponibili app, ottime curation, newsletter e brevi report che consentono di affinare le nostre scelte e comporre la nostra dieta informativa con più consapevolezza, senza affidarsi solo a ciò che passa il proprio giornale/sito di riferimento.

Una dieta varia

Così, sarebbe una buona scorciatoia partire dal lavoro di altri, meglio se professionisti – come giornalisti, scrittori, esperti di comunicazione o specifici settori – proprio iscrivendosi a report periodici o newsletter, per integrare le informazioni dei giornali.

Come per l’alimentazione va poi mantenuto un certo rigore nel:

controllare i fornitori il più possibile, ovvero assicurandosi che chi scrive l’analisi o le informazioni che stiamo leggendo abbia un qualche diritto a dire la sua, di solito dato da un ruolo (giornalista per la tale testata), da una certa esperienza (anche tecnica) o dallo studio (insegna o scrive testi su un tema);

– avere dei “fornitori” di fiducia, i cui prodotti sono i nostri preferiti, ma mai uno solo;

–  iscriversi a qualche buona rassegna stampa (tutte le aziende dovrebbero averla, per capire chi parla di loro, o del loro settore, o dell’economia in cui si trovano, dato che cambia ogni giorno);

–  avere un menù vario, composto da più giornali, ma non solo quelli;

–  includere nel proprio menù anche altre forme di contenuti – si apprende anche da questi – come video, brevi talk, e anche incontri fisici con professionisti del nostro settore, e convegni, non solo specialistici.

Il primo obiettivo, per nulla facile, sarebbe tornare ad una dieta equilibrata, in cui l’informazione che prendiamo dai social network è solo una parte minima di tutta quella che dovremmo assumere quotidianamente.

3 SETTEMBRE 2018

Continua a leggere su Centodieci


Oggi dove siamo

Consumare di meno per volare di più

Pubblicato il

Con il 787 Dreamliner Boeing ha ridotto il consumo di carburante del 20% e creato un aereo più leggero dei precedenti, che consente di volare di più, con la consapevolezza che il mercato del trasporto aereo crescerà.

Antonio De Palmas, Presidente Boeing Italia e Managing Director per il Sud Europa, racconta a Company | Note le innovazioni dell’azienda, che negli ultimi due anni ha investito in Italia 2,2 miliardi di dollari, e attraverso la divisione HorizonX Ventures investe anche in digitalizzazione, elettrificazione, 3D printing, additive manufacturing, propulsione avanzata…

 


Intervista estratta dal business report 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.  

Per riceverlo scrivi a info@companynote.it


 

In che aree di business è attiva la Boeing in Italia?

Boeing è presente in Italia da quasi 70 anni e lavora a stretto contatto con l’industria aerospaziale, le forze armate e le compagnie aeree in tre principali settori di business:

  • aerei commerciali,
  • velivoli per la difesa,
  • servizi.

Boeing e Leonardo (ex Finmeccanica) hanno stabili rapporti di collaborazione su importanti programmi non solo in Italia, ma anche negli Stati Uniti. Nel nostro Paese Boeing ha una partnership consolidata con la Divisione Aerostrutture di Leonardo nel programma 787 Dreamliner, l’innovativo aereo in fibra di carbonio leader del mercato, con oltre 700 aerei consegnati a 71 clienti in tutto il mondo.

Leonardo ha un ruolo significativo producendo lo stabilizzatore orizzontale e la sezione centrale e centro-posteriore della fusoliera, per un totale del 14% dell’intera aerostruttura. Lo stabilimento Leonardo di Grottaglie (nei pressi di Taranto) è dedicato interamente al programma Boeing 787 Dreamliner e impiega circa 1.000 addetti. In un mese vengono prodotte 12 sezioni di fusoliera, che sono poi trasportate per l’assemblaggio negli Stati Uniti dal Boeing Dreamlifter, la versione cargo del 747 appositamente sviluppata per il trasporto di componenti del 787 Dreamliner. Nel 2019 il ritmo di produzione arriverà a 19 sezioni di fusoliera al mese.

Sempre in Puglia, nel sito produttivo Leonardo di Foggia, viene realizzato, interamente in materiale composito, lo stabilizzatore orizzontale del Boeing 787 Dreamliner, per cui viene adottata uno specifica soluzione industriale ed avanzate tecnologie di cui Leonardo detiene il brevetto.

Il Boeing 787 Dreamliner rappresenta attualmente il programma più avanzato nel campo dell’aviazione civile e costituirà la soluzione di riferimento del lungo raggio per lo sviluppo delle compagnie aeree nei prossimi decenni, abilitando nuovi modelli operativi point to point. Il programma ad oggi vanta più di 1.300 ordini ricevuti da 71 clienti in tutto il mondo.

 

Aerei PASSEGGERI di Boeing sono presenti sul mercato italiano dal 1949 e attualmente 7 compagnie italiane impiegano 52 nostri velivoli, fra cui i nuovi modelli 787 e 737 MAX, ma anche 777, 767, 737 Next Generation e 747-400 Cargo.

In particolare vanno segnalati gli sviluppi più recenti della collaborazione con due linee aeree italiane:

  • Air Italy (ex Meridiana, di proprietà di Qatar Airways per il 49%) ha preso in consegna a maggio 2018 il suo primo 737 MAX 8, e a luglio il suo secondo, diventando il primo operatore italiano del 737 MAX. Si tratta solo dei primi due esemplari dei 50 nuovi aerei che entreranno nella flotta di Air Italy entro il 2022, nonché dei primi due dei 20 nuovi Boeing 737 MAX che verranno consegnati alla compagnia nei prossimi tre anni.
  • Neos, compagnia aerea di proprietà del Gruppo Alpitour, è il primo vettore italiano a operare con il Boeing 787 Dreamliner, avendo preso in consegna il primo di tre 787 a dicembre 2017 e il secondo nel giugno di quest’anno. La compagnia vanta già nella propria flotta sei 737-NG per le tratte di corto/medio raggio e tre 767-300 per le tratte di lungo raggio e a giugno 2017 ha inoltre annunciato l’ordine di due Boeing 737 MAX.
  • Senza dimenticare infine che Alitalia ha scelto il grande bimotore Boeing 777 come “ammiraglia” della sua flotta. Attualmente 11 Boeing 777-200ER (“Extended Range”) e un Boeing 777-300ER operano sulle sue principali rotte a lungo raggio.

 

Nel campo della DIFESA, la divisione Boeing Defense, Space & Security (BDS) collabora da molto tempo con le Forze Armate Italiane. L’Aeronautica ha in dotazione quattro Boeing KC-767 Tanker, velivoli per il rifornimento in volo che operano sia in missioni nazionali che internazionali dalla base aerea di Pratica di Mare (RM). Qui un Team Boeing lavora a stretto contatto con l’Aeronautica fornendo un supporto integrato (Performance-Based Logistics) e completo alla flotta dei Tanker.

Nel 2008 Boeing e l’allora AgustaWestland (oggi Leonardo Elicotteri) hanno firmato un accordo per la fornitura all’Esercito Italiano di 16 nuovi elicotteri Chinook CH-47F. Elicottero da trasporto estremamente versatile unico nel suo genere, lo Chinook è in grado di svolgere una molteplicità di missioni, tra cui quelle di “Search & Rescue” (Ricerca e Salvataggio) e soccorsi umanitari nei più svariati teatri in tutto il mondo. Gli Chinook sono stati ampiamente impiegati nel servizio umanitario in missioni di salvataggio in risposta a uragani, terremoti e inondazioni. La versione CH-47F in particolare, di cui sono stati venduti oltre 450 esemplari in tutto il mondo, consente agli utilizzatori di poter avere capacità senza precedenti per supportare l’intero spettro di missioni, militari e non, in ogni tipo di contesto.

 

Nel settore dei SERVIZI, infine, nel 2017 Boeing ha creato una propria Business Unit chiamata Boeing Global Services (BGS), che ha accorpato le aree dei servizi di Boeing Commercial Airplanes (BCA) e Boeing Defense, Space & Security (BDS) per offrire ai clienti soluzioni globali, personalizzate e competitive nei costi per la manutenzione e il supporto logistico post-consegna tanto degli aerei passeggeri quanto dei prodotti di difesa che i nostri clienti utilizzano. A differenza dei contratti tradizionali basati sul pagamento di parti e servizi specifici, in base ad un accordo PBL il cliente paga un pacchetto di supporto di un livello concordato, che può ridurre i costi aumentando i ratei di mission-capability. Boeing supporta contratti PBL con i clienti di tutto il mondo e su più piattaforme, tra cui lo Chinook, ma anche appunto i Tanker italiani di stanza alla Base Aerea di Pratica di Mare.

 

 

Con quanti fornitori italiani lavora?

Boeing lavora in Italia con 30 fornitori di prima fascia, ma vanta anche una importante supply chain che include tutta una serie di sub-fornitori. Tra realtà industriali più importanti con le quali collaboriamo, oltre a Leonardo, c’è ad esempio GE Avio (parte del gruppo General Electric), che è impegnata sui motori del 787 Dreamliner e del nuovo 777X.

Un altro importante esempio di solida collaborazione con i fornitori italiani è UmbraGroup, che è diventata frontiere esclusivo di Boeing per le viti a ricircolo di sfere che sono installate su tutti i nostri aerei commerciali. Il Gruppo fornisce inoltre sistemi e componenti ad alta precisione con applicazione negli stessi velivoli. Nel tempo, il rapporto con Boeing ha consentito alla società di Foligno di espandersi negli USA, acquisendo una società di Seattle e aprendo una sua sede proprio in questa città.

 

 

Quali sono le tecnologie e i materiali legati al vostro settore, in cui vi aspettate maggiori innovazioni?

Sicuramente l’introduzione della fibra di carbonio ha rappresentato il game-changer del trasporto aereo negli ultimi anni. La possibilità di realizzare un aereo come il 787 in fibra di carbonio, e dunque in un materiale più leggero ma al tempo stesso altamente resistente, ha consentito un notevole risparmio in termini di consumo di carburante. Il 787 Dreamliner consuma circa il 20 per cento di carburante in meno rispetto agli altri aerei attualmente in servizio.

Un’ulteriore, e recentissima applicazione dell’uso dei materiali compositi riguarda il 777X, successore del Boeing 777, le cui grandi ali sono costruire in materiale composito presso il Composite Wing Center (CWC) di Seattle.

Ma menzionerei anche il settore dei biocarburanti. Come leader nella costruzione di aerei da trasporto abbiamo la responsabilità di cercare tecnologie che guardino alla sostenibilità. Il trasporto aereo cresce costantemente e continuerà a farlo nei prossimi anni, pertanto si pone un problema di sostenibilità: volare di più, riducendo le emissioni di CO2.

Il carburante rappresenta il 35% della struttura dei costi per una compagnia aerea e quindi da sempre Boeing punta su aerei che permettano un ridotto consumo di carburante, come appunto il 787, ma non solo: già da diversi anni stiamo collaborando con le linee aeree per realizzare dei voli alimentati da biocarburanti sostenibili derivati da piante (come quella di tabacco, o la camelina) oppure semi che consentono di abbassare notevolemente la carbon footprint del trasporto aereo verso gli obiettivi di riduzione che il settore si è imposto entro il 2050.

Infine, Boeing ha creato proprio di recente al suo interno HorizonX Ventures, una divisione che ha l’obiettivo di investire in aziende leader di settori altamente tecnologici quali:

  • la propulsione avanzata,
  • elettrificazione,
  • digitalizzazione,
  • operazioni di UAS (Unmanned Aircraft Systems) per la gestione del traffico aereo,
  • 3D printing e additive manufacturing.

 

 

In che misura le aziende piccole e nuove possono alimentare le innovazioni di aziende grandi come la vostra?

L’innovazione non è una funzione delle dimensioni dell’azienda e l’aerospazio non fa eccezione. Non a caso molte delle nostre acqusizioni e collaborazioni in tecnologie avanzate e disruptive si riferiscono a realtà di piccole dimensioni, spesso start ups, ma con tecnologie di nicchia molto innovative. In Italia, abbiamo maturato un rapporto sinergico con aziende di varie dimensioni, collaborando insieme al progresso tecnologico, alla creazione di valore e cultura lavorativa e di un’occupazione qualificata, al fine di garantire un’industria competitiva e accesso ai mercati mondiali.

Continuamo a guardare alle due variabili di capacità e costi per rafforzare le partnership con le PMI italiane, che riteniamo abbiano ottime capacità tecniche, giusta filosofia di innovazione e flessibilità operativa per competere ed eccellere in un settore sempre più globalizzato e competitivo. Negli ultimi due anni Boeing ha investito in Italia oltre 2,2 miliardi di dollari e secondo uno studio appena realizzato da Oxford Economics oggi supporta complessivamente 16.000 posti di lavoro.

In Italia Boeing può contare inoltre su un team di circa 150 dipendenti diretti dislocati in otto siti: Roma, Pratica di Mare (RM), Pomigliano d’Arco (NA), Foggia, Grottaglie (TA), Milano, Viterbo e Sigonella (SR) – che lavorano nella gestione dei rapporti con partner e fornitori, nei servizi operativi, nelle attività commerciali, nel marketing e nella comunicazione.

 

 

Come riuscite a tenere monitorate tutte le realtà innovative che possono essere di interesse?

Riusciamo a farlo attraverso due canali:

  • tramite i nostri centri di ricerca e la collaborazione con le Università italiane ed europee
  • e a livello più globale tramite HorizonX Ventures.

Boeing è infatti impegnata a promuovere le collaborazioni in campo tecnologico in Italia e in tutta Europa e a continuare a lavorare con i partner europei nell’industria e nel mondo accademico su iniziative di respiro tecnologico. Il Boeing Research & Technology Europe (BR&T-E), impiantato a Madrid nel 2002, è stato il primo Centro di Ricerca di Boeing fuori dagli Stati Uniti e oggi vanta il ruolo di hub dell’R&D per l’Europa intera, coordinando anche i due Centri di Ricerca di Monaco in Germania e Sheffield nel Regno Unito. Con un Team di oltre 70 dipendenti, molti dei quali ingegneri e scienziati reclutati in tutta Europa, il BR&T-E è diventato un importante integratore tecnologico e collabora con:

  • oltre 40 università,
  • 20 centri di ricerca,
  • 5 compagnie aeree,
  • più di 200 partner industriali in 25 paesi.

A livello più generale inoltre, HorizonX lavora proprio all’individuazione di startup che sviluppano concetti rivoluzionari o addirittura disruptive in tutto il mondo. Focalizzandosi su nuove iniziative imprenditoriali, punta alla prossima generazione di idee, prodotti e mercati che saranno i game-changer del futuro. Dal capitale di investimento alla commercializzazione della tecnologia, all’accesso al mercato, Boeing HorizonX intende trasformare nuove idee e attività in realtà.

 

 

Vi capita di acquistarne alcune? A quali parti del settore siete maggiormente interessati?

Esistono pochi dubbi ormai sul fatto che l’industria del trasporto aereo subirà profondi cambiamenti nei prossimi 10 anni attraverso l’applicazione pervasiva di:

  • intelligenza artificiale,
  • robotica,
  • data analytics.

Ci interessano start-up e PMI attive in questi ambiti. Ma non va dimenticato chi si occupa di:

  • efficienza,
  • batterie,
  • elettrificazione dei sistemi.

Il trasporto aereo del domani lo immaginiamo senza pilota. Inoltre guardiamo a nuovi modelli di business e di produzione ritenendo che anch’essi avranno un grande potenziale disruptive nei prossimi anni. A tal fine, abbiamo creato la divisione Horizon X, dedicata a tutto ciò che vediamo come innovativo tra cinque anni, sia sul piano dei prodotti che della produzione e attraverso Horizon X abbiamo già effettuato varie acquisizioni in diversi paesi.

 

 

Aerei nuovi e con minor consumo, resi leggeri grazie a nuovi materiali, aprono nuove rotte commerciali più lunghe. Ci fa qualche caso recente? Quanto questo tipo di innovazioni (tecnologie dei motori e materiali) cambiano il mercato aereo?

Il Boeing 787 Dreamliner costituisce sicuramente l’esempio più eclatante in tal senso. Dall’inizio del nuovo millennio, abbiamo teorizzato il concetto di point to point, ovvero essenzialmente che i passeggeri avrebbero sempre più preferito volare diretti dalla località di origine alla destinazione finale senza scali, in maniera confortevole evitando lo stress dei cambiamenti, ritardi, perdita bagagli etc.

Però gli economics dei modelli aerei allora esistenti non permettevano alle compagnie aeree di aprire rotte point to point in maniera profittevole e quindi, attraverso un approccio di innovazione tecnologica radicale anziché incrementale, abbiamo deciso di progettare e realizzare un nuovo concetto, un game changer, il 787 Dreamliner appunto, che riuscisse a incontrare questa esigenza crescente del point to point abbassando i costi operativi e rendendo queste nuove rotte profittevoli per le compagnie aeree. Lo abbiamo fatto prendendo il meglio dell’industria aeronautica mondiale e in parte condividendo il rischio con questi partner, incluso Leonardo in Italia.

La visione era decisamente quella giusta. Oggi il 787 rappresenta il programma più avanzato nel campo dell’aviazione civile e la soluzione di riferimento per lo sviluppo strategico delle compagnie aeree nel lungo raggio. È un aereo che consente alle compagnie aeree di ridurre sensibilmente i costi operativi, con consumi inferiori del 20 per cento rispetto agli altri aerei di dimensioni simili e una manutenzione predittiva che consente non solo di ottimizzare costi e interventi, ma anche all’aereo di volare più di 12 ore al giorno.

Per ottenere questo risparmio Boeing ha lavorato sull’aerodinamica, sui materiali e sui sistemi di bordo: ognuno di questi ambiti contribuisce in parti uguali al miglioramento dell’efficienza energetica. Ad oggi sono stati ordinati 1.377 aerei 787 da 71 clienti in tutto il mondo. Ma un dato per tutti ne valida il potenziale di enabler del point to point: i 700 Dreamliner oggi in servizio hanno reso possibile l’apertura di oltre 180 nuove rotte; rotte point to point che non esistevano prima e che solo il 787 può operare in maniera redditizia.

Sulla scorta del successo delle famiglie 777 e 787 Dreamliner, il 777X sarà il più grande ed efficiente jet bimotore al mondo, ineguagliato in ogni aspetto delle prestazioni. Ma la performance è solo una parte della storia. L’interno della cabina del 777X si ispira ai comfort e alle comodità del 787 Dreamliner, con finestrini più grandi, una cabina più ampia, nuove luci e un design innovativo, tutte caratteristiche personalizzabili per offrire un’esperienza di volo senza precedenti. Attualmente l’aereo, la cui prima consegna è prevista nel 2020, ha già all’attivo un totale di 340 fra ordini e impegni.

L’ultima famiglia di aerei single-aisle Boeing in ordine di tempo è quella del 737 MAX. Ogni variante – il 737 MAX 7, il 737 MAX 8, il 737 MAX 9 e il 737 MAX 10 – è progettata per offrire ai clienti prestazioni eccezionali, affidabilità ed efficienza, con costi/posto a sedere inferiori e un range esteso che consentirà di aprire nuove destinazioni nel mercato a corridoio singolo. Con oltre 4.600 ordini da 99 clienti in tutto il mondo, il 737 MAX è l’aereo venduto più velocemente nella storia di Boeing.


info@companynote.it