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Perchè sono importanti i dati (degli altri)

L’interesse sui dati da parte delle aziende cresce, e si concentra in particolare sui dati propri, quelli con cui analizzare le proprie performance economiche, quelle di dipendenti, prodotti e servizi.

Eppure ci sono dati utilissimi a evitare pericoli e limitare i rischi. Sono quelli degli altri; quelli che fornitori, clienti e partner decidono di inviarci, o decidono di dichiarare. E non sono sempre quelli veri.

Abbiamo chiesto a Luisa Quarta – marketing director di Bureau van Dijk Italia (Moody’s Analytics Company) di spiegarci quali sono, dove si trovano, e come si raccolgono.

 


Intervista estratta dal business report privato 11 note di Intelligence Economica di Company | Note.  

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Quanta consapevolezza hanno dell’importanza dei dati le aziende italiane?

Il contesto in continua evoluzione ed i confini che ormai sono sempre più internazionali hanno portato le aziende ad acquisire sempre più consapevolezza dell’importanza dei dati. Fino a qualche anno fa l’attenzione era tutta concentrata sui dati interni relativi ai propri clienti, come i dati economico finanziari, le esperienze di pagamento e tutto ciò che concerneva la relazione con i clienti.

Oggi questi dati rimangono cruciali ma le aziende necessitano sempre più di approfondimenti e aggiornamenti costanti. Anche le normative hanno contribuito a mettere in primo piano la gestione dei dati; pensiamo ad esempio al più recente DGPR che ha obbligato le aziende a grossi investimenti ed in alcuni casi a rivoluzioni organizzative.

E ancora prima la normativa sulla compliance e l’antiriciclaggio che ci impone una conoscenza approfondita della controparte con cui facciamo affari. Non sono più quindi sufficienti dati sulla solidità finanziaria della controparte, ma occorre verificare la sua struttura societaria, il titolare effettivo, il paese in cui ha sede la società,…

 

Quali rischi e pericoli si possono limitare e prevenire attraverso la raccolta e l’analisi dei dati?

I potenziali pericoli che possono danneggiare un business sono infatti innumerevoli; ne esistono di generici e altri quasi specifici per ogni funzione aziendale. Alcuni, pochi, non sono prevedibili né dunque gestibili in anticipo, ma molti altri si.

Dai più tradizionali riguardanti la valutazione della solidità finanziaria che storicamente è stato un tema sensibile per gli uffici crediti e sta diventando sempre più importante per l’ufficio procurement, sia in fase di scouting ma soprattutto nella valutazione dell’attuale portfolio fornitori per garantire la business continuity.

Molto spesso è infatti difficile sapere esattamente con chi si sta concludendo ad esempio un contratto di fornitura. Le informazioni scarseggiano. Ci si domanda: sarà un partner affidabile? E se anche lo fosse, ci sarà qualcosa del suo modo di intendere il lavoro che può contaminare in qualche modo la mia immagine?

Per risolvere questi dubbi esistono strumenti molto sofisticati che mettono a disposizione le informazioni necessarie sulle società nazionali e internazionali con dati finanziari standardizzati e confrontabili oltre ad indicatori semplici ed intuitivi.

Un punto non meno importante poiché si sta rivelando un aspetto delicato e su cui la sensibilità delle aziende sta aumentando a livello esponenziale è quello della gestione del rischio reputazionale. Soprattutto su questo tema l’ampia copertura e la tempestività dell’informazione diventa strategica per superare i limiti dei famosi registri dei titolari effettivi di cui si parla tanto ultimamente.

 

Ad oggi le imprese quali strumenti interni hanno a disposizione per raccoglierli?

Gli strumenti per la raccolta e l’archiviazione dei dati sono ormai entrati nella gestione quotidiana della maggior parte delle aziende, da quelle più strutturate alle tradizionali PMI. Sono poche infatti le società che non si sono poste il problema della raccolta dei dati e che non hanno implementato un sistema di CRM o ERP.

Quello che invece rappresenta sempre più una sfida è l’identificazione della “corretta” informazione, l’aggiornamento della stessa e l’integrazione quindi nei propri sistemi. Sicuramente avere più informazioni possibili è importante ma è ancora più importante saperle gestire ed organizzare per prendere delle decisioni corrette in tempi rapidi.

 

C’è qualche differenza tra le pmi e le aziende grandi?

Indubbiamente le grandi aziende sono strutturate e ogni dipartimento si prende carico dei relativi rischi; inoltre queste aziende hanno assimilato prima le diverse normative in atto e hanno in alcuni casi strutturato interi processi per la raccolta e l’analisi dei dati.

Ci sono comunque delle PMI che stanno seguendo questa stessa strada, ma per la maggior parte il problema rimane la struttura organizzativa e la necessità di potersi avvalere di persone che sappiano leggere intelligentemente i dati.

 

E quali dati raccolgono al momento?

L’urgenza in questo periodo è sicuramente la raccolta dei dati per rispondere alla normativa sulla privacy e a quella antiriciclaggio, ma rimane salda la necessità di avere informazioni economico finanziarie per valutare le proprie controparti.

Queste valutazioni possono sembrare semplici perché pensiamo alla disponibilità dei dati di bilancio che abbiamo in Italia, ma considerando che i confini sono sempre più globali, occorre necessariamente spostare l’attenzione a tutto il mondo.

E qui si pone il grande problema: l’accesso ai bilanci non è semplice ed immediato per tutti i Paesi e l’Italia rappresenta in questo senso un’isola felice poiché il nostro paese è uno dei più virtuosi in cui la pubblicazione delle informazioni economico finanziarie è maggiormente efficiente.

 

Quali sono invece i dati che potrebbero raccogliere e non lo fanno?

Ad esclusione delle società più grandi e strutturate, le tradizionali PMI non hanno ancora interiorizzato temi come quelli della corretta valutazione della controparte.

Il rischio reputazionale infatti non viene ancora considerato per la sua reale importanza ma se pensiamo che banalmente oltre 28.000 aziende italiane hanno un azionista estero ed in alcuni casi in Paesi black list, non possiamo non prendere in considerazione il problema.

Si stima che più del 25% del valore di mercato di una società è indirettamente attribuibile alla sua reputazione quindi non possiamo non analizzare nel dettaglio il nostro fornitore, cliente o dipendente con cui stiamo avviando un rapporto di lavoro.

Inoltre i dati subiscono una variazione costante e da quello che registriamo nei nostri database, in media ogni secondo cambia l’azionariato di almeno due società. Quindi non è solo importante la natura dei dati che si raccolgono ma la tempestività nel loro aggiornamento.

 

Cosa le frena? Cultura, costi, competenze…?

Alcune aziende sono ancora poco attente alla raccolta di questi dati, e non solo quelle di medie dimensioni. Spesso ci troviamo di fronte a referenti che credono di potersi esimere dalla raccolta di tutte queste informazioni solo perché lavorano con realtà italiane o credono di conoscere molto bene i propri clienti come accadeva qualche decennio fa.

 

Una piccola e media azienda che non ha le risorse economiche per assumere un data analyst, che soluzioni può adottare?

L’importante è essere consapevoli dell’importanza dell’analisi dei dati per la gestione dei rischi e scegliere soluzioni con un’interfaccia semplice ed intuitiva. Inoltre, in questi casi diventa di fondamentale importanza trovare soluzioni che prevedano una formazione costante.

 

Qual è la figura interna con cui vi relazionate in materia di dati?

Nelle aziende ormai tutti i dipartimenti pongono molta attenzione ai dati ma la sensibilità maggiore la riscontriamo nei credit e risk manager che da sempre sono sensibili al dettaglio informativo.

Negli ultimi anni anche il procurement manager ed il compliance o legal manager sono sempre più coinvolti nel processo di analisi e valutazione dei dati a seguito anche dell’introduzione della normativa sull’antiriciclaggio.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare l’interlocutore che noi incontriamo meno, o in un momento successivo alla sottoscrizione dell’abbonamento, è invece il dipartimento IT.

 

Le informazioni e i dati raccolti in azienda non sono solo quelli di bilancio, e vediamo che spesso sono utilizzati solo per prendere decisioni. Purtroppo non c’è ancora l’uso a farne contenuti per l’esterno o il middle management. Perché?

Il dato di bilancio è ormai una commodities e soprattutto è un dato pubblico anche se ancora incontriamo qualcuno che ci domanda come siamo venuti a conoscenza dei suoi dati sensibili (riferendosi ai dati di fatturato).

Naturalmente la raccolta i questi dati è agevole ed immediata per le aziende quotate, ma la questione si complica se spostiamo l’attenzione sulle società private che nella realtà rappresentano ben oltre il 90% delle aziende operanti sul mercato. Inoltre, vi è il problema per i diversi criteri di redazione dei bilanci visto che non esiste un modello standard.

La diversificazione emerge in relazione a quali informazioni le aziende depositano presso le rispettive autorità nazionali, come le stesse vengano divulgate o siano accessibili, le motivazioni e le soglie imposte per la divulgazione obbligatoria sulla base di parametri quali numero di dipendenti e fatturato.

E molte di queste differenze sono di origine culturale. Il Regno Unito, il primo paese ad aver iniziato il processo di industrializzazione, ha visto le proprie società depositare bilanci fin dal diciottesimo secolo. La filosofia era che gli investitori sarebbero stati attratti da aziende con utili emergenti e che davano prova di potenziale crescita, il tutto messo nero su bianco in bilanci “accessibili” che avevano lo scopo di fornire un quadro preciso della solidità dell’impresa.

Nel resto d’Europa gli investimenti esterni in società erano rari e la maggior parte delle imprese a conduzione familiare e al contrario dei paesi anglosassoni, le banche e gli stati giocavano (e ancora giocano) un ruolo importante nel finanziamento delle imprese.

Solo con l’introduzione della IV direttiva dell’Unione Europea nel 1974 il deposito dei bilanci è divenuto obbligatorio nella maggior parte degli stati membri. Secondo l’UE lo scopo principale del deposito dei bilanci è quello di fornire a ciascun governo nazionale le informazioni necessarie a fini fiscali e statistici.

Lo scopo dei bilanci presentati dalle aziende private alle diverse autorità regionali può quindi riassumersi come segue: nei paesi anglosassoni il bilancio serve per fornire un quadro veritiero e corretto dell’impresa agli attuali o potenziali azionisti; in altri paesi europei il bilancio viene redatto per fornire alle autorità informazioni a fini fiscali e statistici e offrire tutela ai creditori.

L’approccio culturale da questo punto di vista non è cambiato molto tanto che all’estero moltissime aziende diffondono dati anche sulla propria strategia o sulle politiche di CSR per valorizzare il proprio brand mentre in Italia siamo rimasti più conservativi e per così dire riservati.

 

Quali sono le più recenti innovazioni che stanno toccando il vostro settore?

Non possiamo non considerare l’artificial intelligence che potrebbe supportare le aziende nella lettura ed interpretazione dei dati.

Si parla infatti molto di big data e avere la possibilità di interpretare ancora più facilmente il dato o individuare il dato più pertinente per sviluppare la strategia aziendale diventerà negli anni sempre di crescente importanza.

 

Ci sono start up che stanno sviluppando servizi interessanti?

Nel corso di questi anni abbiamo avuto modo di sottoscrivere oltre 200 partnership a livello mondiale con società di fama internazionale ma anche con delle vere e proprie start up che a nostro avviso, meglio di altre, stavano cogliendo le opportunità che il contesto anche normativo offre.

Ci sono ad esempio società di ricerca e raccolta di informazioni sui rischi legati a questioni ambientali, sociali e di governance (ESG) e alla condotta aziendale. Alcune di queste società sono in grado di analizzare ogni giorno più di 80.000 fonti pubbliche e stakeholder esterni, compresa la stampa locale, internazionale e i media online, le newsletter, le organizzazioni non governative, le agenzie governative, i think tank, i blog e i social media in 16 lingue diverse.

Anche il mondo accademico è molto attivo su questi temei e uno degli spin-off dell’Università Cattolica con cui stiamo lavorando da tempo sui temi dell’infiltrazione criminale è Transcrime, che ha sviluppato dei sistemi di analisi del rischio di infiltrazione criminale.

Normalmente le start up hanno un approccio ai dati differente visto che in alcuni casi fanno del dato il loro core business, ma si focalizzano meno sul dato interno e valorizzano più il dato esterno.


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